Cambiano gli interpreti, il copione non cambia

Per quante beghe si svolgano nel neo eletto Parlamento, compreso lo stallo in cui l’hanno cacciato i risultati elettorali, è improbabile che la direzione che seguirà sarà diversa da quella svolta dal precedente, compatto nel garantire ai “mercati” che – comunque fosse andata – qualcuno avrebbe pagato, ovvero si sarebbe trovato il modo di costringere la classe operaia a pagare la crisi. Alla prova dei fatti, possiamo dire che il programma dettato a suo tempo dalla BCE e dalle centrali finanziarie europee sia stato eseguito nelle sue grandi linee, con la collaborazione di tutte le forze politiche parlamentari e mai seriamente osteggiato da alcuna organizzazione sindacale. Certo, ci sono ancora margini per peggiorare le cose (rimane il corposo capitolo delle ulteriori liberalizzazioni e privatizzazioni), ma molto è già stato fatto.

Se qualcuno ricorda ancora il testo della lettera della BCE, inviata nell’agosto 2011 nel pieno della crisi finanziaria italiana, potrebbe seguirne passo passo i punti, realizzati con diligenza dal cosiddetto Governo tecnico:

“Intervenire ulteriormente nel sistema pensionistico, rendendo più rigorosi i criteri di idoneità per le pensioni di anzianità e riportando l’età del ritiro delle donne nel settore privato rapidamente in linea con quella stabilita per il settore pubblico”.

E’ stato il primo intervento, prontamente eseguito a dicembre 2011, anche se per tutto il 2012 sono andati in pensione coloro che avevano maturato i requisiti prima della riforma. Per tutti gli altri, le prospettive sono radicalmente mutate: sale l’età pensionabile, in adeguamento con la cosiddetta “speranza di vita”, di tre mesi già dal 2013, e poi progressivamente fino ai 68 anni, ma sarà possibile lavorare addirittura fino a 75 anni e 3 mesi su base volontaria. Peccato non sia possibile riformare la lunghezza della vita umana, se no qualcuno ci avrebbe pensato. Per la pensione di anzianità, ribattezzata “anticipata”, già dal 1 gennaio 2013 ci vorranno 42 anni e 5 mesi di lavoro per gli uomini, un anno in meno per le donne. Si è passati al contributivo per tutti e scendono i rendimenti, con coefficienti ridotti del 3-4%: per ottenere la stessa pensione, bisognerà avere accantonato molti soldi in più. Nel frattempo è rimasto largamente irrisolto il problema degli esodati, coloro che avevano già lasciato il lavoro per accordi aziendali o licenziamento, sperando di accedere alla pensione con i vecchi requisiti, e che si sono ritrovati senza lavoro e senza pensione, in molti casi per anni. Stando alle ultime stime, sarebbero ancora circa 150.000

“Dovrebbe essere adottata una accurata revisione delle norme che regolano l'assunzione e il licenziamento dei dipendenti”.

E’ stata la seconda puntata. A giugno 2013, con la definitiva approvazione alla Camera, è caduto il vecchio totem delle tutele stabilite dall’art. 18 dello Statuto dei lavoratori. Il reintegro sul posto di lavoro rimane solo nel caso che il licenziamento sia stato discriminatorio. Per il licenziamento disciplinare, il reintegro è previsto solo se il fatto non sussiste, o il lavoratore non lo ha commesso, o se la fattispecie è prevista dal contratto nazionale con una sanzione diversa dal licenziamento. Ma se non si verifica nessuna di queste ipotesi, basta che secondo il padrone una qualunque infrazione sia degna di licenziamento, e può mandarti a casa con un semplice indennizzo, senza che il giudice possa disporre diversamente. Per il licenziamento di carattere economico, se è ingiustificato la regola diventerà il pagamento di un indennizzo, mentre fino ad oggi la regola era il reintegro; ma dimostrarlo ingiustificato sarà dura, perché la ragione dovrà essere “manifestamente insussistente”. Basterà un calo momentaneo del fatturato, ed ecco già pronta una ragione sussistente. Quanto alle assunzioni, Confindustria lamenta ancora la scarsa flessibilità in entrata provocata da pochi interventi di scarso peso, come cercare di limitare l’uso improprio dei contratti a progetto. Per la Cgil, a dieci anni dalla grande manifestazione di Roma, è stato problematico giustificare la resa, ma - dopo una certa resistenza di facciata - l’assenza di una seria organizzazione delle iniziative di lotta e degli scioperi ha reso evidente che, oltre a Cisl e Uil, si poteva procedere anche con il sostanziale assenso della compagine di Camusso.

“Riformare il sistema di contrattazione salariale collettiva, permettendo accordi al livello d’impresa in modo da ritagliare i salari e le condizioni di lavoro alle esigenze specifiche delle aziende e rendendo questi accordi più rilevanti rispetto ad altri livelli di negoziazione. L’accordo del 28 giugno tra le principali sigle sindacali e le associazioni industriali si muove in questa direzione”.

Questo velenoso riconoscimento alla Cgil è da una parte perfettamente coerente, dal momento che riconosce il sostegno Cgil all’accordo che stabilisce come un contratto possa derogare anche alle leggi; dall’altra anticipa che ci sarebbe voluto altro che la blanda resistenza del novembre scorso, per evitare di affossare definitivamente il contratto nazionale con la nuova intesa tra associazioni del padronato e Cisl-Uil. La mancata firma Cgil non ha impedito l’accordo, che dà la possibilità di modificare orari di lavoro e straordinari, consente il demansionamento con riduzione di stipendio, permette perfino il controllo dei lavoratori con telecamere e altro, e fa della produttività l’unico valido parametro per gli aumenti contrattuali. Nessun aggancio con il costo della vita, nessuno con l’aumento dei prezzi: solo salari “ritagliati sulle esigenze dell’impresa”, appunto. Eppure i salari sono già bassissimi, e il loro reale potere d’acquisto è crollato del 4,1%, tanto in discesa da essere tornato ai livelli di 27 anni fa. Mentre il costo della vita è aumentato del 3%, ma quello dei prodotti ad alta frequenza d’acquisto del 4,3%, le buste paga in media meno della metà, dato che quelle dei dipendenti privati sono aumentate del 2,2%, e quelle dei dipendenti pubblici sono ferme a 0 per il terzo anno. Del resto un’altra delle prescrizioni BCE era:

“Valutare una riduzione significativa dei costi del pubblico impiego, se necessario riducendo gli stipendi”.

In attesa di una riduzione più robusta, da subito il blocco dei contratti per il pubblico impiego è stato prorogato di un anno, e si è attuata una prima effettiva riduzione bloccando l’indennità di vacanza contrattuale, una miseria di una decina di euro a testa, che però moltiplicata per centinaia di migliaia fa il suo bel gruzzolo in meno.

“Sarebbe appropriata anche una riforma costituzionale che renda più stringenti le regole di bilancio”.

A luglio 2012 anche il Parlamento italiano vota l’obbligo del pareggio di Bilancio e l’impegno al rientro del debito pubblico nel giro di vent’anni entro la soglia del 60% del PIL. E’ tutto un programma: appunto, quello che i grandi gruppi finanziari e i potentati economici impongono alla classe operaia di tutto il continente europeo. Quello che costerà alla popolazione una misura simile ancora non è possibile valutarlo, perché l’impatto potrebbe essere ancora più devastante, in termine di tagli ai servizi sociali, di quanto si possa immaginare. Già allo stato attuale i fondi per le politiche sociali sono stati tagliati del 75%, la sanità ha subito tagli per 4,5 miliardi, che saliranno a 10,5 nel 2013 e a 11 nel 2014, per un totale di 26 miliardi. Di qualunque colore sia il Governo, come ha dichiarato Mario Draghi, Presidente della BCE, “l’Italia ha il pilota automatico”.

UN’AGENDA CONTRO LA CLASSE OPERAIA

La classe operaia ha subito arretramenti su tutta la linea. L’ecatombe di posti di lavoro non accenna a diminuire. Dati ministeriali contano un milione di licenziamenti nel 2012, e a gennaio 2013 le richieste di cassa integrazione risultano aumentate tendenzialmente del 61,6% rispetto a un gennaio 2012 già disastroso. La cassa integrazione straordinaria, quella più legata a crisi strutturali, è pressoché decuplicata in un anno (Il Sole 24 Ore, 6.2.13), con un incremento del 97%. E il dato più inquietante riguarda la Cig in deroga, cioè l’anticamera del licenziamento, che risulta in decremento del 41,1% rispetto a dicembre 2012, probabilmente perché, una volta scaduto il periodo, i lavoratori sono stati licenziati. Il tasso di disoccupazione all’11,1% nel 2012 è già all’11,6%, e viaggia – secondo le previsioni - verso il 12%, mentre per i giovani tra i 15 e i 24 anni ormai è un record che supera il 38%. Se il tasso generale è abbastanza in linea con la media europea, quello giovanile supera senza confronti quello dell’Europa a 27, che si attesta intorno al 23,7%. Negli ultimi quattro anni abbiamo assistito a un fenomeno nuovo: il crollo delle immatricolazioni nelle Università, il 6,5% in meno – 24.000 nuovi studenti in meno - che descrivono bene la mancanza di fiducia nello strumento della laurea per trovare un lavoro.

Con numeri simili, non si fa fatica a credere che dal 2010 al 2011, secondo il rapporto Istat, il rischio di povertà o di esclusione sociale è cresciuto dal 26,3 al 29,9% – la variazione peggiore nell’Unione europea. In numeri assoluti, si parla di 8 milioni 173.000 di individui poveri, il 13,6% dell’intera popolazione. Il 45,9% della ricchezza è tuttora detenuto dal 10% della popolazione, e i dieci italiani più ricchi possiedono un patrimonio pari a quello dei 3 milioni più poveri (dati Bankitalia). Il 2,8% dei nuclei familiari ha un bilancio totalmente in rosso.

Aumenta il fenomeno dei senzatetto, anche se mancano dati precisi perché molti comuni hanno difficoltà ad aggiornare i registri anagrafici. Ma, considerando gli utilizzatori di mense e servizi di accoglienza notturna, si parla di cifre intorno alle 48.000 persone: non soltanto immigrati o disoccupati, ma anche famiglie, e persone che dispongono di lavori saltuari, di bassa qualifica, con salari medi intorno ai 350 euro mensili.

Ovviamente calano i consumi. Nell’anno passato la pressione fiscale è aumentata dal 42,5 al 44,7%, i tagli alle spese delle famiglie italiane ammontano ad almeno 33 miliardi. Si è speso meno in tutti i generi di consumo, dal telefono, all’elettricità, ai carburanti (-10%, un consumo rapportabile agli anni ’60), al gas, che ha registrato consumi in calo del 4,1% rispetto al 2011 nonostante un inverno molto più freddo, e più bassi perfino di dieci anni fa, nonostante le vetture a metano siano aumentate del 40%. Le vendite di auto sono calate del 20%, le compravendite di abitazioni tra privati del 26%, rispetto a un mercato già asfittico nel 2011. Le concessioni di nuovi mutui immobiliari sono diminuite del 44%, e chi ha già un prestito bancario fa sempre più fatica a pagare le rate, come succede al 22,6% delle famiglie. Anche la spesa alimentare si allinea: -1,5% per gli acquisti di cibo, aumento del 20% degli acquisti di prodotti senza marca.

La tendenza del 2011 si è aggravata nel 2012, e non ci sono segnali diversi per il futuro.