Il risultato delle elezioni del 24 e 25 febbraio
Nelle pagine del quotidiano della Confindustria, all’indomani delle elezioni politiche, si poteva leggere: “Il Nobel Krugman ha scritto che le elezioni in Italia erano un referendum sull’austerity, cioè sulle politiche di rigore economico. È così. E il referendum è stato perso dai “rigoristi”, capeggiati da Monti, anche perché la loro medicina si è dimostrata troppo amara per un’opinione pubblica che non vedeva l’ora di scrollarsi di dosso un anno e più di “lacrime e sangue”, senza una prospettiva chiara di ripresa”(Il Sole 24 Ore, 26 febbraio 2013). A questo commento si deve aggiungere che anche il quarto di elettori che non è andato a votare ha contribuito al risultato finale di questo “referendum”.
Il disgusto per la politica
Il livello di partecipazione più basso nella storia della repubblica, per quanto sia la continuazione di un trend interrottosi soltanto nel 2006, è un fatto notevole. Nel 2001 il tasso di partecipazione alle elezioni per il rinnovo della Camera fu dell’81,4%, nel 2006 si ebbe un’inversione di tendenza, con l’83,6%, ma già nelle scorse elezioni politiche del 2008 la partecipazione era scesa all’80,5%. Nessuna differenza significativa se ci si riferisce al Senato. I continui scandali che hanno investito il mondo della politica istituzionale, gli intrecci con gli ambienti finanziari e affaristici, in un contesto di grave crisi economica pagata duramente dalla massa della popolazione, hanno naturalmente rafforzato l’atteggiamento di ostilità nei confronti dei partiti e delle istituzioni in genere. Agli astenuti vanno poi aggiunti quanti hanno annullato la scheda o l’hanno depositata in bianco nell’urna, in totale più di un milione e duecentomila per la Camera e un po’ meno per il Senato. Neanche il nuovo movimento di Beppe Grillo è riuscito a convincere questi milioni di persone che il loro voto avrebbe avuto una qualche influenza sul loro futuro.
È probabile, tuttavia, che il movimento Cinque Stelle abbia limitato le dimensioni dell’astensionismo riuscendo a convogliare in parte l’insieme di umori e di sentimenti che ne sono all’origine. Di sicuro il successo di Grillo ha rappresentato un tonico per un parlamentarismo in crisi da decenni. I consensi alla sua lista vengono dagli strati sociali più diversi che la crisi ha apparentemente unito. Ma la protesta dell’imprenditore contro la burocrazia, contro le tasse o la restrizione del credito non punta necessariamente agli stessi obiettivi ai quali punta l’operaio che perde il posto di lavoro. Il malcontento è comune ma non è detto che lo siano anche le soluzioni. Ciò nonostante, è probabile che il sostegno al movimento Cinque Stelle continui ad aumentare. Fintanto che la massa dei lavoratori non entrerà in lotta in difesa dei propri autonomi interessi, è naturale che prevalgano le idee e i pregiudizi della borghesia o della piccola borghesia. A questi pregiudizi si deve la riduzione del conflitto sociale ad uno scontro fra onesti e disonesti, fra difensori di vecchi privilegi, tutti concentrati nell’ambito dello stato e del sistema dei partiti, e cittadini retti e laboriosi, che si tratti di padroni o di operai non fa differenza. Il capitalismo non viene messo in discussione come sistema. Al massimo, con una ambigua rivendicazione di “sovranità nazionale”, ci si scaglia contro il capitalismo degli altri: quello tedesco prima di tutto, ma poi anche contro tutti gli organismi sopranazionali.
Nella misura in cui il voto alla lista di Grillo ha assorbito almeno in parte le spinte popolari contro il “sistema”, le classi dirigenti dovrebbero fargli un monumento. Questo non toglie che il risultato elettorale, nel suo complesso, apre un altro capitolo della crisi politica italiana rendendo praticamente impossibile una formula di governo stabile.
Una gravissima emorragia
All’indomani dello spoglio elettorale, Bersani ha mestamente riconosciuto di aver avuto un risultato largamente inferiore alle aspettative della vigilia. Berlusconi, con la solita sfrontatezza da avventuriero, ma anche con l’abilità di un illusionista consumato, ha presentato le cose come se ci fosse stata una rimonta del suo schieramento. La campagna del Centrodestra si è incentrata sulle rivendicazioni anti-tasse. Soprattutto con la trovata della promessa restituzione dell’Imu. La comunicazione del “Cavaliere” ha anche operato il miracolo di azzerare il sostegno del suo partito al governo Monti e a tutti i suoi provvedimenti economici. In questo è stato largamente aiutato da un PD che, nel corso dell’anno, si è voluto distinguere come leale sostenitore del governo dei banchieri facendo in sostanza una lunga campagna elettorale contro se stesso e a favore di Monti. Ma i numeri, se si ha la pazienza di esaminarli, non consentono trucchi. Il PD ha perso più o meno il 28% del proprio elettorato delle elezioni politiche precedenti. Si tratta di 3 milioni e 400mila voti. Il Pdl, sulla cui “rimonta” si è tanto favoleggiato, ha perduto quasi la metà dei suoi voti: 6 milioni e 300mila! È un disastro, altro che “rimonta”. Anche la Lega non si è salvata. Perde più della metà dei voti, ovvero un milione e 630mila. E alle regionali lombarde, che si sono svolte contestualmente, Maroni ha ottenuto un successo reso possibile soltanto dal sostegno di Berlusconi, dal contestuale arretramento del Centrosinistra, dall’irrompere del movimento “Cinque Stelle”. La lista “Maroni Presidente”, inventata per recuperare il consenso degli elettori disgustati dagli scandali che hanno toccato la Lega, ha riscosso il consenso del 10,22% dei votanti, quella della Lega il 13%. Sufficienti, nella condizione data, a prendersi la presidenza della regione, ma un po’ pochi per dichiarare con compiacimento alla stampa: “Missione compiuta!”. I dirigenti della Lega, avendo propri uomini alla testa delle regioni del Nord, dicono di fregarsene di quello che accade a Roma e di voler realizzare alla svelta la “Macroregione”. Ci sono tutte le premesse perché questa sia l’ultima della lunga serie di bubbole di questi politicanti irresponsabili.
Gran parte dell’elettorato del Nord, comunque, ha voltato le spalle al sogno reazionario della Lega. Questo fatto riflette, in qualche modo, un’evoluzione della coscienza politica delle masse lavoratrici settentrionali? Lo speriamo, perché nelle regioni più industrializzate d’Italia si dovranno combattere le battaglie decisive del futuro. Non quelle – immaginate dai fondatori della Lega Nord - fra centralismo romano e regionalismo padano, e nemmeno quelle inventate oggi dall’eloquenza di Beppe Grillo.
Sarà ancora una volta la lotta di classe, come sempre è accaduto nel passato, a spianare la strada al vero progresso sociale. E nel corso di questa lotta, acquistando una crescente fiducia nelle proprie forze, la classe operaia saprà liberarsi definitivamente di tutte le incrostazioni di ideologie e pregiudizi che le impediscono oggi di agire come una grande forza sociale i cui nemici non sono definiti dalla geografia ma dalla divisione della società in sfruttati e sfruttatori, in lavoratori salariati e capitalisti.
R.Corsini