Ha suscitato giustamente sdegno la decisione di chiudere lo stabilimento Bridgestone di Bari. Ci sono in ballo 950 posti di lavoro diretti e centinaia di altri indiretti. Sulla disperazione degli operai e delle loro famiglie non si deve scherzare. Noi non sappiamo quanto siano sinceri i propositi di solidarietà manifestati sia dal sindaco di Bari, Michele Emiliano, sia dal governatore della Puglia, Nichi Vendola. Al momento che il giornale va in stampa non è ancora avvenuto l’incontro a Roma presso il Ministero dello Sviluppo Economico. Sulla sorte dei lavoratori, su quella del sito produttivo, grava quindi un’inquietante serie di punti interrogativi.
In circostanze come queste, ogni parola di solidarietà è utile, ogni proposito di lotta deve essere visto con simpatia. Ma la questione Bridgestone ripropone almeno due questioni che riguardano tutta la classe lavoratrice: la prima è che al continuo stillicidio di aziende o di singoli impianti che vengono chiusi, con i conseguenti licenziamenti, non si può più rispondere caso per caso. Le testarde burocrazie sindacali locali, in ogni città e in ogni provincia, sono abituate a ripetere gli stessi riti: appelli alle autorità locali, esaltazione, attraverso volantinaggi e comunicati stampa, delle capacità produttive dell’impresa che è minacciata dalla chiusura, ricerca di nuovi acquirenti attraverso l’appoggio o l’interessamento di questo o quel partito, di questo o quell’onorevole. Ma questo copione è ormai logoro. La durezza della recessione lo ha reso del tutto inutile, gli ha tolto, se mai lo ha avuto, ogni appiglio concreto. E allora? Allora bisogna andare ad una mobilitazione generale che imponga quelle misure che una vertenza aziendale non potrà mai ottenere. Tanti sono ormai i casi di aziende che chiudono che il terreno per un’azione collettiva che abbracci, dal nord al sud, tutte le categorie è ampio e solido. Non c’è da inventarsi niente. C’è da organizzare la mobilitazione di tutta la classe lavoratrice, contro i licenziamenti, per la distribuzione del lavoro esistente fra occupati e disoccupati senza decurtazione dei salari, per l’istituzione di un’indennità di disoccupazione che non sia un’elemosina ma che garantisca una sopravvivenza dignitosa.
La seconda questione riguarda la dimensione sovranazionale di certe aziende e il tipo di condotta rivendicativa che questa dimensione imporrebbe. È ora di colmare la voragine che separa la visione “internazionalista” del management delle multinazionali, come appunto la giapponese Bridgestone, dalla visione esclusivamente nazionale di chi dovrebbe rappresentare gli interessi operai. Avere abbandonato per anni e anni ogni seria ricerca di coordinamento fra dipendenti di una stessa corporation sta portando risultati disastrosi. Anche qui le burocrazie sindacali di mezzo mondo hanno responsabilità enormi. Esse si sentono mille volte più legate ai loro governi nazionali che ai lavoratori degli altri paesi. Ma le controparti non hanno di questi pregiudizi “patriottici”. La Bridgestone, come la Fiat, sposta le produzioni dove più le conviene, non trovando nessun forza che le si oppone sulla stessa scala. Nessuna organizzazione internazionale di lavoratori la costringe a negoziare almeno dei minimi standard di salari e di organizzazione del lavoro. Nessuno ne ostacola il proposito di giovarsi delle peggiori condizioni di lavoro accettate in un determinato paese per ottenere un peggioramento analogo in un altro, sotto la minaccia di chiudere gli impianti e licenziare.
Per quanto difficile, la via dell’unione internazionale degli operai si presenta sempre più urgente. L’annuncio della chiusura dell’impianto di Bari, motivato con la diminuzione della domanda di pneumatici, è stato trasmesso in videoconferenza dalla direzione di Tokyo. Quanto sarebbe diversa ora la situazione se a questo annuncio fosse seguito uno sciopero in tutte le filiali del gruppo?
RC