Lotte operaie nel mondo - La “fabbrica del mondo” prova a organizzarsi

Della Foxconn, impresa con origini a Taiwan e fabbriche in Cina, avevamo già parlato qualche mese fa, per le condizioni di lavoro disumane e la serie di suicidi che negli ultimi anni l’avevano portata – per così dire – all’onore delle cronache. Fabbriche di dimensioni inimmaginabili per gli standard occidentali, con centinaia di migliaia di dipendenti, fabbriche come quella di Longhua, nello Shenzhen. Considerata la più grande del mondo, è una vera città nella quale si contano più di 300.000 abitanti, per la stragrande maggioranza giovanissimi, e tutti occupati a produrre a costi ridicoli prodotti tecnologici ad alto livello per i marchi di telecomunicazione tra i più noti e venduti nel mondo, come Apple e Samsung. Per assicurare ai committenti prodotti di alta qualità a costi irrisori, dal 1988 eserciti di operai e tecnici lavorano con orari ben oltre il limite di sopportabilità delle capacità umane, con brevi interruzioni per i pasti e il sonno.

Infatti, come i prodotti, anche i metodi adottati dalla dirigenza per ottenerli cominciano a essere abbastanza noti. Inchieste giornalistiche di vario genere, inclusa quella di un giovane reporter di un quotidiano cinese, che un paio di anni fa era riuscito a farsi assumere come operaio, dopo aver firmato una liberatoria “volontaria” che scaricava l'azienda da ogni responsabilità circa i lunghi orari lavorativi, hanno contribuito a illustrare efficacemente la vita sulle linee di produzione, dove ad esempio - quando è necessaria la posizione in piedi - per muovere un po’ le gambe bisogna far finta di far cadere in terra qualcosa.

Naturalmente non si tratta, in un Paese immenso come la Cina, che si espande a ritmi frenetici di industrializzazione, dell’unica fabbrica dove si lavori in queste condizioni, ma se ne può parlare in particolare come di un microcosmo, che ha racchiuso in uno spazio relativamente limitato tutti i meccanismi dello sviluppo capitalistico, non troppo dissimili, nelle forme e nei metodi, da quelle degli albori della rivoluzione industriale. Probabilmente ne sta replicando – ovviamente non in modo meccanico – anche i meccanismi di reazione, dato che proprio nelle fabbriche Foxconn, che rappresentano comunque l’impresa privata più grande del Paese, si stanno realizzando i primi tentativi di elezione di sindacati indipendenti.

Può darsi che la cosa cominci a preoccupare le imprese occidentali, che hanno un entusiasmo da cavallette sulla massa enorme del nuovo proletariato cinese da sfruttare, ma - come sostiene con tranquillo cinismo il Sole 24 Ore del 5 febbraio scorso - “è difficile che i nuovi sindacati, che non saranno completamente indipendenti, perseguano politiche salariali o di organizzazione del lavoro che mettano in seria difficoltà le operazioni della Foxconn … Per l’azienda e il Governo si tratta piuttosto di limitare la propria responsabilità diretta nella complicata gestione del lavoro e, in caso di altri incidenti o suicidi, si tratta di avere un ammortizzatore sociale e di pubbliche relazioni”. E’ possibile, per quanto ne sappiamo – purtroppo molto poco – e d’altronde è il ruolo storicamente ricoperto molto spesso dai nostri sindacati occidentali.

Ma non è l’unico segnale di lotta che ci arriva dal colosso cinese, e non soltanto da fabbriche direttamente collegate a famosi marchi occidentali: lo sfruttamento è altrettanto, e forse ancora più spinto, nelle miniere e negli stabilimenti di proprietà statale, che fabbricano prodotti di ogni tipo, dalle scarpe ai giocattoli.

Nonostante il sostanziale oscuramento delle notizie, attraverso il China Labour Bullettin, un’organizzazione non governativa che ha sede a Hong Kong, e sostiene lo sviluppo dei sindacati in Cina, si può avere un’idea generale delle lotte che si sviluppano e della loro ampiezza. A quanto pare, solo nel 2012 sono stati almeno 265 quelli che in Cina si definiscono incidenti di massa nel settore manifatturiero: scioperi o scontri tra operai e aziende, quasi sempre per rivendicazioni salariali, soprattutto nella parte sud orientale del Paese.

Ci sono stati anche 43 scioperi nel settore dei trasporti, e numerose proteste nel settore dell'educazione. Le ragioni, non è difficile da immaginare, sono sempre le stesse: aumento dei salari, pagamento degli straordinari, miglioramento delle condizioni di lavoro, salari arretrati, indennità per i licenziamenti, ma anche il mancato pagamento delle assicurazioni sociali, dato che molti lavoratori non hanno una pensione o un’assicurazione sanitaria. E nonostante i salari siano aumentati nel corso degli ultimi anni, anche in misura relativamente rilevante, il livello resta estremamente basso: a Shangai, dove i salari sono aumentati 18 volte dal 1993, sono passati da 210 a 1450 yuan al mese…ma 1450 yuan al mese corrispondono a circa 200 euro!

Nonostante questi livelli, alcuni organi di stampa, come il Corriere della Sera, sono preoccupati: “Ci stiamo avvicinando alla fine del fenomeno “Cina fabbrica del mondo” … I salari cinesi crescono a due cifre dal 2000. … Il vantaggio competitivo dell’economia cinese fondato sulla manodopera a basso costo è sostanzialmente stato annullato”. Annullato, ma anche solo ridotto, sono parole grosse, per i profitti sovrabbondanti fatti in Cina sulle spalle della “manodopera a basso costo”. Ma per questi commentatori, anche solo un minimo miglioramento delle condizioni salariali degli operai cinesi è una vera iattura, un passo indietro per il capitale.

Per noi, il passo avanti è qualsiasi lotta.

Aeffe