Con l’avvicinarsi delle elezioni, il teatrino della politica si rianima. Ci sono le vecchie maschere già conosciute e ci sono quelle nuove. Tutte le principali questioni che la crisi economica ha posto drammaticamente sul tappeto vengono ridotte a formulette elettorali. Ognuno ha la sua ricetta. Soprattutto quelli che al governo ci sono già stati, direttamente o indirettamente. Il palcoscenico, si sa, crea un incanto particolare, dove i personaggi possono compiere veri prodigi.
Ma i fatti si impongono testardi. Le cifre parlano. La Banca d’Italia prevede che il tasso di disoccupazione arriverà al 12% di qui al 2014. Per i giovani siamo già al 32%. L’Istat comunica che ci sono in Italia 8,2 milioni di poveri, di cui 3,4 in condizioni di povertà assoluta. La disoccupazione di lunga durata, quella di chi è disoccupato da più di un anno, riguarda il 51% dei senza lavoro. Il crollo dei redditi è del 4% solo nell’anno appena finito, mentre le ore di cassa integrazione richieste sono salite a più di un miliardo e le domande di indennità di disoccupazione sono aumentate del 14,50%.
L’infinita serie di scandali che continua a travolgere il mondo politico e quello degli affari, l’interminabile galleria di farabutti che la cronaca continua a svelarci, favoriscono il diffondersi del mito della legalità. Si legano a questo mito le nuove coalizioni di Ingroia e il movimento di Beppe Grillo.
Ma la crisi è crisi di un sistema economico sociale. È crisi del capitalismo. L’onestà c’entra molto poco. Al tempo in cui l’economia era basata sulla schiavitù c’erano proprietari di schiavi onesti, se ne trova testimonianza storica perfino nella Bibbia, ma rimanevano proprietari di schiavi e il sistema restava schiavistico. Oggi è il sistema capitalistico, basato sullo sfruttamento del lavoro salariato che è in crisi come tale. Nei paesi dove il tasso di corruzione e i privilegi legalizzati dei politici di professione e dell’alta burocrazia di stato sono molto inferiori a quelli italiani, la crisi colpisce la massa della popolazione con non minore durezza.
Tutti i partiti che oggi chiedono il voto, almeno tutti i partiti più importanti, si collocano sul terreno del capitalismo. Ne difendono i caratteri principali e si limitano, in alcuni casi, a chiedere qualche attenuazione marginale degli effetti drammatici della sua crisi. Tutti dicono di voler sconfiggere la disoccupazione e la povertà ma nessuno osa impegnarsi a prendere le risorse economiche necessarie là dove stanno. Ovvero, nessuno osa riconoscere che la crisi imporrebbe di mettere veramente le mani nelle tasche della grande borghesia industriale e finanziaria.
Nel vocabolario dei maggiori esponenti politici europei è entrata da tempo la parola “riforme”. Ogni volta che una “riforma” si realizza, come nel caso delle riforma delle pensioni o quello della riforma del lavoro, approvate quasi all’unanimità dal Parlamento, si tratta in realtà di un passo indietro per i lavoratori e per i ceti popolari. La sostanza di ognuna di queste pretese riforme è la restaurazione di condizioni più favorevoli agli imprenditori nei loro rapporti con i propri dipendenti e la restaurazione, più in generale, di condizioni che mantengano alle classi dominanti il controllo e la disponibilità della maggior parte possibile di denaro pubblico.
Quando i partiti fanno a gara a definirsi “riformisti” non fanno che confessare il loro legame più stretto con la grande borghesia e con tutto il sistema economico che consente a questa classe di mantenere ed aumentare i propri privilegi pure in presenza di un impoverimento generalizzato della maggioranza della popolazione.
La domanda giusta da farsi allora non è: “Per chi dobbiamo votare?” ma “che cosa dobbiamo fare?”, noi, lavoratori, disoccupati, pensionati. Noi che della crisi stiamo pagando tutto il prezzo. Che cosa dobbiamo fare per difenderci, per impedire che il grande capitale e i suoi esecutori politici di ogni colore ci spingano ulteriormente verso la miseria?
Dobbiamo opporre un programma operaio ai vari programmi di “riforme” dei partiti del gran capitale, consapevoli che un programma simile non si realizzerà mai come risultato del voto ma solo come conseguenza di una lotta determinata, aspra e prolungata, portata avanti dalla massa più larga della popolazione. Dobbiamo, per cominciare, organizzarci attorno a questo programma.
La situazione impone urgentemente provvedimenti radicali, provvedimenti che escono necessariamente dai limiti giuridici che proteggono il capitalismo e che nessuna coalizione di quelle che competono per arrivare al governo avrà mai il coraggio di difendere. Avere un quadro veritiero delle risorse economiche disponibili significa abolire il segreto bancario e commerciale. Concentrare queste risorse e destinarne una gran parte alla risoluzione dei problemi sociali più urgenti significa nazionalizzare il sistema creditizio. Chi pensa che si possa rispondere in un altro modo alla miseria dilagante e alla progressiva precarizzazione di tutti i rapporti di lavoro, è un complice, consapevole o meno, delle classi privilegiate, è un puntello del capitalismo.
Le “riforme” più urgenti, quelle che riguardano la vita e il destino della maggior parte della popolazione, sono la garanzia di un salario decente, protetto dagli aumenti dei prezzi, la distribuzione del lavoro fra occupati e disoccupati a parità di trattamento economico, il blocco dei licenziamenti. Questi obiettivi dovranno far parte del programma politico della classe lavoratrice. Dovranno incoraggiare una ripresa delle lotte operaie. Queste e non il voto potranno imporle alla grande borghesia, al suo stato e al suo governo.