Lo scorso 21 novembre è stato siglato l’accordo nazionale sulla produttività. Lo hanno firmato i rappresentanti delle imprese, i sindacati Cisl, Uil e Ugl e il governo. Quali saranno le conseguenze pratiche di questo accordo? È difficile dirlo. O meglio: è difficile dire se, nella sua concreta applicazione, prevarranno le truffe legalizzate delle imprese nei confronti del fisco oppure la diminuzione dei salari reali e dei diritti dei lavoratori.
Il terreno della produttività è quello su cui si esercita la massima capacità di imbroglio da parte del padronato e dei suoi difensori tanto nel campo politico quanto in quello giornalistico o accademico. Ma i dati dicono cose chiare. La produttività delle aziende italiane è ferma da vent’anni. Cioè è ferma da quando Cgil,Cisl e Uil regalarono al padronato l’abolizione completa della scala mobile dei salari e introdussero la cosiddetta concertazione. Anche quell’operazione, salutata all’epoca con grandi squilli di tromba, doveva servire a rendere più competitivo il “sistema Italia” mandando in soffitta l’inflazione. Il risultato, ora registrato dagli stessi uffici studi dei sindacati, è stata una progressiva riduzione del potere d’acquisto dei salari e una diminuzione del loro peso complessivo come quota della ricchezza nazionale. Potendo usufruire di un così lungo periodo di blocco salariale di fatto, le imprese italiane hanno continuato a far profitti senza preoccuparsi di innovare e di investire. Ora, con la massima disinvoltura, presentano le cose come se l’incremento della produttività nelle aziende fosse una cosa che dipende dai lavoratori!
Ecco allora che tutti i grandi discorsi sull’importanza dell’innovazione, della ricerca, ecc. hanno partorito un accordo che consentirà, nelle aziende dove si potrà sviluppare una contrattazione “di secondo livello”, di derogare ai contratti nazionali e alle leggi in tema di orari di lavoro, di mansioni, di diritti alla riservatezza personale. Tutto questo in cambio di qualche spicciolo che, tolto dall’ammontare degli aumenti già previsti dal contratti nazionali, potrà essere messo in palio nella rincorsa agli obiettivi produttivi dell’impresa. Come? Con quali parametri? Non è ancora dato saperlo. Più di un commentatore ha rilevato che tutta la faccenda puzza anche di imbroglio fiscale. L’accordo prevede infatti che venga ripristinata la norma del 2007 che prevedeva una defiscalizzazione parziale degli aumenti legati alla produttività. (entro un limite del 5% della retribuzione). Pochi spiccioli in tasca agli operai ma molti di più in tasca agli imprenditori che si inventeranno, come hanno fatto nel passato, collegamenti salariali improbabili ad ancora più improbabili aumenti di produttività. Tra i vari “auspici” contenuti nel testo c’è anche quello della partecipazione dei lavoratori agli utili di impresa. Un vecchio fallimentare arnese ideologico della Cisl sul quale l’economista Tito Boeri, sulle colonne de La Repubblica ha speso un efficace commento: “Proporre questo in un momento di crisi equivale a una colossale presa in giro: i lavoratori che diventassero oggi azionisti della loro impresa aggiungerebbero al rischio di perdere il lavoro quello di vedere bruciati i risparmi di una vita”.
Il presidente Monti, di fronte ai giornalisti, ha auspicato una “evoluzione di pensiero” della Cgil, che non ha firmato l’accordo. La cosa più probabile è che la Camusso, dopo un’opposizione di facciata, aggiunga l’accordo sulla produttività al dossier di provvedimenti che Bersani ha promesso di “ripulire” una volta al governo.
Questa vicenda consegna al mondo del lavoro, in ogni caso, nuovi punti di appoggio, nuovi argomenti, per una risposta generalizzata agli attacchi del padronato e del governo. I firmatari dell’accordo ci mostrano che tutti i limiti possono essere forzati e tutti i paletti divelti. È questione di rapporti di forza. Se si può introdurre, nei rapporti fra imprese e lavoratori, il concetto che le leggi e le norme contrattuali nazionali, in quanto garanzie di determinati diritti per tutti, possono essere aggirate con accordi locali, perché questo non potrebbe essere fatto, al contrario, nell’interesse dei lavoratori? Perché non si potrebbe, prima in un’azienda e poi, via, via, in altre aziende derogare dalle leggi e dalle norme nazionali introducendo un meccanismo di adeguamento automatico delle retribuzioni al costo della vita? Perché non si potrebbero impegnare le direzioni aziendali di una o più aziende o di un territorio a mantenere, per un dato periodo di tempo, per i prossimi cinque anni ad esempio, almeno lo stesso numero di posti di lavoro a tempo indeterminato? È questione di rapporti di forza, appunto.
Il governo Monti, la Confindustria e i loro amici sindacalisti “responsabili” ci stanno dimostrando che le leggi non sono un ostacolo invalicabile.