Pubblico impiego: non ci sono scorciatoie

Altri due anni senza contratto, che si aggiungono ai tre già passati, e per i prossimi nemmeno la miseria dell’indennità di vacanza contrattuale; mobilità e futuri licenziamenti. Brunetta o non Brunetta, l’attacco alla categoria dei pubblici dipendenti non si ferma, anzi saggia il terreno in vista dell’affondo definitivo. E’ urgente capire che, in assenza di una reazione decisa, i tagli forsennati ai lavoratori e ai servizi non si fermeranno. Il 28 settembre scorso un primo sciopero generale Cgil e Uil, con manifestazione a Roma.


Non sarà una macchietta come l’ex Ministro Brunetta, ma il nuovo Ministro Patroni Griffi non solo non ha cambiato una virgola dei provvedimenti presi dal suo predecessore: anzi, con l’auspicio del cosiddetto Governo tecnico, ha inaugurato una nuova e più violenta stagione di tagli, le cui conseguenze forse non sono ancora chiare, ma lo diventeranno presto.

Nel giro di un anno il nuovo Governo, osannato dalla stampa borghese tutta e dall’intero arco costituzionale, e invitato a ripetere il lavoro sporco anche dopo l’intervallo della prossima sceneggiata elettorale (primavera 2013), blandito e ossequiato in patria e all’estero, dove ha potuto vantarsi di aver distrutto le pensioni e liquidato l’art.18 senza popoli in piazza e con il trascurabile inciampo di tre misere ore di sciopero generale, si dirige ora verso l’affondamento dei servizi pubblici, e in conseguenza il drastico ridimensionamento degli organici dei pubblici dipendenti. Dirlo in questi termini non dev’essere sembrato troppo elegante, così l’operazione è stata pomposamente ribattezzata con il termine inglese “spending review”, senz’altro più fine ma non diverso nella sostanza. Si tratta in pratica di nuovi tagli e privatizzazioni dei servizi negli Enti locali e nella Sanità, escluse (per ora) Scuola e Università. L’entità dei tagli era già stata decisa in pieno mese di agosto, com’è usanza degli ultimi anni, in cui non si aspetta l’autunno per quelle che un tempo si chiamavano col più casereccio termine di “stangate”.

La stangata in questione riguarda appunto Ministeri, Regioni, Province, Comuni e Sanità, e non si limita ai bilanci correnti, ma guarda anche a quelli futuri, con una progressione impressionante: per i Comuni ad esempio, se il taglio previsto per il 2012 è di 500 milioni, sarà di 2 miliardi nel 2013 e nel 2014, di 2 miliardi e 100 milioni nel 2015. Per la Sanità sono previsti 900 milioni in meno nel 2012, 1 miliardo e 800 milioni nel 2013, 2 miliardi nel 2014, 2 miliardi e 100 milioni nel 2015, con la riduzione del 5% degli importi dei contratti di fornitura di beni e servizi, 15.000 posti letto in meno e 1000 primari in meno.

I posti letto passano da 4 a 3,7 ogni mille abitanti. Se già oggi ospedali e pronto soccorso sono intasati, se per svolgere un esame diagnostico o per iniziare una cura ci vogliono mesi, possiamo solo ipotizzare che nei prossimi anni sarà peggio. Se i posti negli asili nido sono insufficienti, e sempre più limitate le possibilità di intervento nei vari servizi comunali, nei trasporti scolastici, nella manutenzione degli immobili pubblici, nella tutela del territorio, verosimilmente le difficoltà saranno quintuplicate nel giro di tre anni. L’intento è chiaramente quello di liquidare quanto più possibile l’intervento pubblico, per arrivare alla semplice tesi che i servizi si pagano, e che il denaro prelevato - quasi esclusivamente dalle buste paga - sotto forma di tasse, ha come uso prioritario quello di sparire nelle fauci senza fine di Banche e speculatori di ogni risma, che banchettano ogni giorno con gli interessi sul debito pubblico. In nome e per conto loro, il rispettabile Governo dei serissimi tecnici colpisce i lavoratori due volte, sui posti di lavoro e sui loro bisogni di servizi; e per assicurare a questi stessi speculatori e istituti finanziari le grasse rendite delle loro speculazioni, è prontissimo a togliere l’essenziale a tutti.

Va da sé che se i servizi diminuiscono, non servono nemmeno i dipendenti pubblici. E infatti almeno il 20% (ma può essere di più) è tagliato con lo stesso decreto, insieme al 10% dei dirigenti. Per lo Stato e il Parastato, si calcolano 11.000 esuberi, e 13.000 per il comparto degli Enti Locali. Entro fine settembre enti pubblici e agenzie dovevano trasmettere al ministero le loro proposte di taglio, effettuate con una base di computo ancora non chiara, ma che si deve chiarire entro il 31 dicembre: dopodichè, le amministrazioni che non lo faranno non potranno più assumere, nemmeno a tempo determinato. Una volta individuati i tagli, i dipendenti “eccedenti” saranno collocati in mobilità per due anni, al termine dei quali – salvo ricollocazione - prenderanno la via del licenziamento. Gravissimo anche l’attacco ai salari, che non saranno solo bloccati, ma per la prima volta ufficialmente diminuiti: salta l’indennità di vacanza contrattuale, una miseria che non raggiunge i 10 euro al mese.

Non sempre i lavoratori pubblici comprendono fino in fondo quanto il rischio li riguardi da vicino, e quanto velocemente la situazione possa evolvere; in questo senso molto ha contributo l’insipienza e l’assoluta mancanza di autonomia delle organizzazioni sindacali nei confronti del potere politico. La storia degli ultimi anni, che pure ha visto contratti non rinnovati e normative odiose come la perdita di parte del salario in caso di malattia, non è molto incoraggiante. Il contesto si divide tra le varie confederazioni, con una Cgil che reagisce pro-forma, più che altro a colpi di comunicati stampa, spesso sconosciuti anche ai lavoratori, o con scioperi sporadici preparati senza convinzione e proclamati a distanza di mesi – se non di anni – l’uno dall’altro, senza un programma serio di mobilitazione; Cisl e Uil che hanno firmato passivamente qualsiasi accordo a perdere, riservandosi all’occorrenza di tutelare qualche proprio iscritto: la Cisl non ha partecipato nemmeno allo sciopero del 28 settembre, affermando che c’era ancora spazio per trattare (e si è visto, hanno diminuito i salari); sindacati di base che, anche per ovvie condizioni di debolezza, non sono riusciti ad andare oltre episodi di agitazione nelle singole categorie.

La manifestazione del 28 settembre, pur vivace e con una partecipazione dignitosa, può essere soltanto un inizio. Ma a dare gambe alla mobilitazione devono essere i lavoratori, sono loro che devono diventarne i protagonisti. Anni di lavoro quasi sempre malpagato, ma sicuro, hanno indotto nell’erronea convinzione che questo sia un dato acquisito, che possa durare per sempre, e hanno assecondato spesso una tendenza all’individualismo e una profonda sfiducia nella possibilità di cambiare le cose insieme. Non è così, e non ci sono scorciatoie. Se c’è una via d’uscita è nella capacità di lotta costante e organizzata, sulla base di poche semplici parole d’ordine: nessun licenziamento nel Pubblico Impiego, rinnovo immediato dei contratti!

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