Dall’altra parte della barricata

Ora, per misurare la distanza dalla situazione economica greca si usa il macabro indicatore dei suicidi. In Grecia sono molti più che da noi. Bella consolazione!

Resta il fatto che l’Italia è immersa fino al collo nella crisi e si trova in recessione. Il Fondo Monetario Internazionale, disegnando il quadro di un’economia mondiale ancora in forte difficoltà, ha gelato le promesse di Monti e dei suoi su un rientro nel pareggio di bilancio entro il 2013.

Il governo ha riconosciuto il “prezzo altissimo” pagato dalle famiglie italiane. Anzi, Monti, nel presentare il Documento economico e finanziario (Def) del governo ha detto testualmente: “il disagio occupazionale tocca direttamente o indirettamente quasi la metà delle famiglie italiane”. A tutto questo si risponde con la programmazione di ulteriori sacrifici. Nel Def si prevedono tagli per 26.6 miliardi nella spesa pubblica di cui buona parte in quella sanitaria. Un dirigente della Cgil nazionale, Fulvio Fiammoni, ha commentato: “Ciò che pare davvero surreale è che ancora si discuta su come facilitare i licenziamenti, che invece vanno arrestati”. Ma non si tratta tanto di surrealismo, quanto di realistico adeguamento della politica del governo alle pretese della Confindustria. E in questo realismo entra dentro, purtroppo, anche la consapevolezza della debole resistenza di chi, come la Cgil, dovrebbe tutelare i lavoratori. Perché, tanto per rifarsi alla frase citata, “arrestare i licenziamenti” o diventa un preciso obiettivo e una precisa rivendicazione della mobilitazione operaia o resta un pio desiderio. Arrestare l’emorragia di posti di lavoro è l’emergenza numero uno che la crisi impone alla classe lavoratrice. Invece, anche sulla difesa dell’articolo 18, l’ “intransigenza” del maggiore sindacato, più volte esibita nelle interviste televisive dalla Camusso, ha già iniziato a mostrare delle crepe. La sostanza della cosiddetta “riforma del lavoro” è accettata dai vertici di tutte le confederazioni sindacali.

Il sociologo ed economista Luciano Gallino, in un saggio pubblicato di recente, stima in circa un milione e mezzo di individui i milionari italiani. Scrive Gallino: “Se il patrimonio di questi individui “ad alto valore netto” , di cui un milione di dollari è il limite inferiore ma l’entità media e considerevolmente più alta, fosse stato assoggettato a una risibile patrimoniale permanente di 3000 euro in media, si sarebbero raccolti 4,5 miliardi l’anno. Una cifra grosso modo equivalente ai tagli della pensione dei lavoratori dipendenti decisi dal neo governo Monti nel dicembre 2011”.

È il segno di classe di un governo che non è e non può essere neutro nello scontro di interessi che la crisi ha reso più acuto. In questa lotta di classe il governo sta da una parte ben precisa. Ha preferito, preferisce e preferirà sempre imporre i più gravi sacrifici ai lavoratori, ai disoccupati, ai ceti popolari in genere, ovvero alla grande maggioranza di quelli “italiani” di cui dice di voler rappresentare gli interessi, piuttosto che scalfire, anche solo in misura risibile i patrimoni e i profitti dei grandi capitalisti. Il mito dei “tecnici” è una fesseria a cui si può credere solo per malafede o per ignoranza. Se anche ci sono persone capaci “tecnicamente” nel governo, si tratta di gente che mette a disposizione la propria competenza per le classi più ricche contro la maggioranza della popolazione.

Il potere politico non può essere neutrale. Esso si basa sulla difesa di determinate classi e sulla difesa di un ordine economico-sociale che le mantiene al vertice della società. L’enorme maggioranza che è esclusa da ogni potere ed è sempre più esclusa dalla ricchezza deve farsi sentire. Va di moda, in certi ambienti di sinistra, dire che il lavoro non è una merce. Una bella frase, ma vuota come lo sono molto spesso le belle frasi. Oggi il lavoro, cioè più esattamente la forza-lavoro, non è neanche una merce, cioè viene trattata, sia dal punto di vista economico che normativo, molto meno di una merce.

I lavoratori devono esigere che la loro esistenza a un livello dignitoso passi sopra a tutti i sofismi che schiere di ruffiani del capitale oppongono alle loro esigenze. Il grande capitale, le banche, i grandi centri finanziari vogliono “uscire dalla crisi” sulla loro pelle, mettendo al primo posto la conservazione dei propri profitti. Non siamo, evidentemente dalla stessa parte della barricata. Milioni di persone, che ne abbiano coscienza o meno, intendono per “uscire dalla crisi”, uscirne vivi e in condizioni economiche accettabili. Se realizzare questa minima aspirazione umana farebbe scricchiolare l’edificio dell’ordine capitalistico, tanto peggio. È il segno evidente che bisogna liberarsene al più presto.