Peggiori condizioni di lavoro e azzeramento dei diritti attendono i primi rientri in fabbrica. E 4000 lavoratori restano ancora in cassa integrazione
Il 21 novembre scorso 133 lavoratori hanno varcato i cancelli della Fiat di Pomigliano, oggi Fabbrica Italia, per dare inizio alla produzione della nuova Panda. Diventano così 368 i lavoratori rientrati in fabbrica dopo tre anni e mezzo di cassa integrazione e di fermo produttivo.
A fine dicembre l’organico della newco dovrebbe salire (il condizionale è d’obbligo) a 970 addetti. Al momento si tratta di produrre 3500 vetture destinate alle concessionarie. Il vero lancio della linea di montaggio è previsto a partire da metà febbraio 2012. Restano fuori dalla fabbrica oltre 4000 lavoratori la cui cassa scadrà a luglio 2013, come deciso dall’ accordo separato dell’11 giugno 2010 tra Fiat, Fim e Uilm. L’azienda ha parlato di rientro di tutti i lavoratori, sempre che il mercato lo permetta.
E’ del tutto fuori luogo la soddisfazione di Fim e Uilm per l’avvio produttivo che, a lor dire, confermerebbe il valore positivo dell’accordo. La Fiat ha sì previsto il rientro di 4500 lavoratori più i 700 della Ergom, azienda dell’indotto, ma a fronte di un volume produttivo annuo pari a 280000 Panda. Oggi la previsione è già scesa a 230000, comprese le 30000 prodotte in Polonia.
Il patto di Pomigliano, in ogni caso, non ha nulla di che andare fieri. L’accordo scellerato, osteggiato da Fiom e Slai Cobas, e approvato dalla maggioranza dei lavoratori solo grazie al ricatto dell’azienda (“o accetti o sei fuori”) e dal voto determinante di capi e impiegati non colpiti dal peggioramento delle condizioni di lavoro in catena, oggi viene esteso dalla Fiat a tutti i lavoratori del gruppo con la disdetta di tutti gli accordi aziendali e con l’uscita dal contratto nazionale di categoria. E’ l’isolamento dei lavoratori Fiat dagli altri metalmeccanici, voluto dall’azienda con il concorso attivo di Fim e Uilm, che in ottobre firmavano una nota congiunta in cui si dava il consenso a negoziare un unico contratto nazionale del gruppo Fiat. Il 29 novembre si apriva il tavolo delle trattative nella sede confindustriale di Torino con gran parte della delegazione Fiom lasciata fuori della porta d’ingresso. Secondo l’azienda, i cobas presenti al presidio dei lavoratori davanti alla sede avrebbero impedito l’accesso ai sindacalisti Fiom. Si sa bene, invece, quanto alla Fiat dia fastidio la presenza alle trattative di sindacati restii ad accettare il nuovo modello di relazioni sindacali corporativo e aziendale. Un fastidio tale da far dire a Marchionne, e non è la prima volta, in un’intervista rilasciata negli Usa, che la Fiat, in caso del perdurare di difficoltà e tensioni nei rapporti sindacali, potrebbe lasciare l'Italia. Frase poi smentita dall’azienda, ma che trova una sostanziale conferma nel sibillino avvertimento, questo non smentito, lanciato dall’a.d. nella stessa intervista: «La Fiom vuole la tirannia della minoranza… La Fiat non può essere la vittima di questa minoranza. Non si può investire così, siamo una multinazionale che ha attività in tutto il mondo... Chiunque pensa di condizionare la Fiat si sbaglia ».
Un modello, quello di Pomigliano, contenuto nel doppio fondo della scatola vuota del Piano Fabbrica Italia, spacciato da Marchionne come indispensabile volano per la ripresa produttiva. Parlare di ripresa produttiva in un contesto di crisi come quella che stiamo vivendo, peggiore forse di quella del 1929 per gravità ed estensione, è una colossale presa in giro. Il P.F.I. si prefiggeva di aumentare, dal 2010 al 2014, la produzione annua di vetture da 800000 ad 1 milione e un volume di investimenti pari a 20 miliardi di euro. Un obiettivo a dir poco velleitario se pensiamo che nei primi 10 mesi di quest’anno le vendite auto della Fiat in Italia sono crollate del 13,76% (da 516874 vetture a 445758). E se il buon giorno si vede dal mattino…!
L’unico impegno mantenuto da Marchionne è stato quello, come si è detto, di estendere il modello Pomigliano a tutti i lavoratori del gruppo, conditio sine qua non, secondo l’a.d., per garantire la presenza della Fiat in Italia. Come la mettiamo, allora, con la chiusura dello stabilimento di Termini Imerese, di Irisbus in Valle Ufita e con gli operai di Mirafiori che lavorano sì e no tre giorni al mese?
In realtà, la sola cosa che tale modello garantisce è lo scaricare sui lavoratori i costi della crisi mediante i 18 turni, l’aumento a 120 ore dello straordinario comandato, lo spostamento della mensa a fine turno, il taglio di 10 minuti delle pause, le penalizzazioni per chi si ammala, le sanzioni per i lavoratori che oseranno scioperare contro le nuove norme. Dulcis in fundo, d’ora in poi i lavoratori non potranno più eleggere i propri rappresentanti sindacali, nominati invece dai sindacati firmatari dell’accordo.
Corrispondenza da Napoli