Quale Italia hanno salvato?

I prezzi hanno ricominciato a crescere e i salari non riescono a star loro dietro. Lo dice l’ISTAT, che parla di salari contrattuali mediamente aumentati dell’1,7% contro aumenti dei prezzi del 3,4%. Chi un lavoro non ce l’ha, e di conseguenza nemmeno un salario, rappresenta più dell’8% della popolazione attiva. Per il 2012 si prevede recessione. Prosegue l’ondata di chiusure e ristrutturazioni aziendali. Nel frattempo il numero dei poveri aumenta. 8 milioni, secondo la Caritas, non pochi dei quali sono operai o impiegati che fanno la fila per un pacco alimentare o per un posto dove dormire. Un giovane su tre è disoccupato.

È una situazione che tocca, in tutto o in parte, la grande maggioranza delle famiglie in Italia. Ed è un quadro che, proprio per questo, imporrebbe provvedimenti radicali e immediati per tutelarne le condizioni di vita. Se qualcuno nutriva qualche illusione che provvedimenti del genere sarebbero venuti dal governo “tecnico” di Monti, ha dovuto ricredersi immediatamente. Proseguendo l’opera di chi lo ha preceduto, aggiungendovi il proprio prestigio come riconosciuto rappresentante del capitalismo delle banche, Monti ha colpito ancora una volta il tenore di vita dei lavoratori, dei pensionati, dei ceti popolari. Le grandi ricchezze sono state, nel migliore dei casi, sfiorate dalla sua manovra economica da trentaquattro miliardi, presentata con il titolo di decreto “Salva Italia”. Le banche hanno ottenuto la completa garanzia dello stato come pagatore di ultima istanza, il che significa che potranno continuare a raccogliere denaro e a speculare con le spalle coperte dai contribuenti. I capitali a suo tempo “scudati”, come ha detto il sindaco di Bari, Michele Emiliano, “se la cavano con un’elemosina dell’1,5%”.

In particolare, con la “riforma” del sistema pensionistico - l’ennesima - che si muove nel solco di quella del governo di centrosinistra del 1995, si è fatto un altro decisivo passo nel senso dell’impoverimento progressivo della massa dei lavoratori: blocco degli adeguamenti automatici all’inflazione per gran parte dei pensionati, estensione immediata del criterio contributivo, innalzamento immediato dell’età per la pensione di vecchiaia, di fatto, a settant’anni con le penalizzazioni per chi maturerà 42 anni di contributi prima dei 62 anni di età.

A tutto questo si aggiungono, tra l’altro,gli aumenti dell’Iva e quelli delle accise sui carburanti che, come ha detto il presidente della Corte dei Conti, porteranno un ulteriore aumento dell’inflazione stimato “prudenzialmente” all’uno per cento. Il crimine sociale continua.

Ma già si annuncia la prossima manovra perché i mercati vedano che l’Italia fa sul serio. E già si torna a parlare di “riforma” del mercato del lavoro. Si tratterà di rendere ancora più facili i licenziamenti. Si tratterà di neutralizzare l’ultima barriera rappresentata dall’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori. E l’effetto, come per l’innalzamento dell’età pensionabile, non sarà soltanto quello immediato e diretto di un aumento dei licenziamenti nelle aziende con più di quindici dipendenti, ma anche quello indiretto, psicologico. In altri termini, tanto la paura del licenziamento in generale, quanto la paura del licenziamento in età avanzata, senza più la possibilità di andarsene in pensione dopo poco tempo, permetteranno al padronato di usufruire pienamente dello spettro della disoccupazione per comprimere i salari e intensificare lo sfruttamento. Finalmente la legge della domanda e dell’offerta nel mercato del lavoro potrà agire liberamente! Finalmente il ruolo di depressione dei salari che giuoca la massa dei disoccupati non troverà norme contrattuali o leggi che ne ostacolino gli effetti. E questo lo chiamano “governo tecnico”!

In realtà, non si è visto da tempo un governo più “politico”. Politico nel senso più profondo, nel senso che riassume il significato e il ruolo del potere politico come difensore degli interessi dell’intero sistema capitalistico.

Bisogna che si faccia sentire la voce dei lavoratori. Questa necessità è e sarà sempre più avvertita nella misura in cui la salvaguardia degli interessi dei grandi gruppi capitalistici spingerà i governi di tutto il mondo a spremere gli operai e a tagliare, un po’ alla volta, pezzi di “stato sociale”. Ma da che cosa e come cominciare? Intanto dalla partecipazione a tutte le iniziative, che siano scioperi o manifestazioni, indette dai sindacati o dai delegati di base di singole aziende. Poi dalla elaborazione di alcune poche e fondamentali rivendicazioni che vadano nel senso di una risposta d’insieme della classe lavoratrice. Se, per fare un esempio, nelle principali città industriali, fossero diffuse da gruppi di operai organizzati volantini con la spiegazione di queste stesse rivendicazioni e se attorno all’organizzazione, al bilancio, al proseguimento di questa attività si formasse una rete di militanti, questa sarebbe un bel passo avanti. Non sarebbe certo ancora la risposta generale della classe lavoratrice, ma sarebbe un passo concreto per dare un orientamento sicuro alle prossime inevitabili lotte.