Senza contratto per morire

Alla ribalta della cronaca - ma solo per un giorno - il lavoro nero e le condizioni di degrado nei laboratori abusivi. E solo perché lo sfruttamento e la mancanza di sicurezza sono costate la vita a quattro giovani lavoratrici e a una ragazzina, figlia dei proprietari.

Il 3 ottobre scorso una palazzina fatiscente di Barletta, in Puglia, è crollata seppellendo senza scampo cinque persone, cinque donne, quattro delle quali lavoravano al piano terra in un maglificio che il locale segretario Cgil ha definito “azienda sconosciuta all’INPS” (e, si presume, anche al Fisco?), e una era la giovanissima figlia dei proprietari, che si trovava lì per caso.

Tutta la vicenda è un tragico concentrato di quanto di peggio è in grado di offrirci la società in cui viviamo. Vecchie costruzioni mai manutenzionate né consolidate, lavori di ammodernamento autorizzati a ridosso della palazzina, che possono averne compromesso la stabilità, allarmi inascoltati su crepe e scricchiolii della struttura, nessuna azione di controllo e tutela, un laboratorio in uno scantinato, dove lavoravano le quattro operaie morte.

Dalla denuncia dei familiari si è saputo che in quel buco senza luce e senz’aria, e ovviamente senza uscite di sicurezza, si lavorava a 3,95 euro l’ora, totalmente al nero, senza contributi né coperture assicurative, senza ferie, malattie, maternità, etc. E senza orario di lavoro: si poteva lavorare dalle 8 alle 14 ore al giorno, e si era flessibilissime anche come numero di lavoranti. Si poteva lavorare in quattro o in cinque, in base alle commesse che i titolari riuscivano a procurarsi, per uno stipendio mensile che si aggirava intorno ai 400-600 euro. Per questa miseria sono morte quattro giovani donne intorno ai trent’anni, che - come raccontano i familiari - “Erano donne normali. Lavoravano per bisogno, non per divertimento. Avevano bisogno di pagare il mutuo, la benzina. Non avevano il contratto, ma avevano la tredicesima pagata. Magari non erano proprio assunte, ma il lavoro da queste parti serve, mica ci si sputa sopra”. (Corriere della Sera, 5.10.11)

Non ci si sputa sopra, anche e soprattutto perché il lavoro nero - soprattutto nel Meridione, ma non solo - non è un’eccezione: nella stessa Barletta, solo nel 2011, ben 13 aziende sono state chiuse dalla Guardia di finanza per irregolarità varie. Secondo l’ultima indagine ISTAT, nel 2010 in Italia i lavoratori in nero erano oltre due milioni, l’11% della forza lavoro totale, anche se a quanto pare in leggero calo negli ultimi vent’anni. Il settore del tessile, al quale appartenevano le operaie di Barletta, comprenderebbe circa 45.000 lavoratori irregolari, ma sarebbero più di 900.000 nell’agricoltura, e quasi 300.000 nell’edilizia. Questi numeri parlano di un esercito di senza tutele, per i quali rimangono un miraggio anche i peggiori accordi in perdita delle peggiori organizzazioni sindacali. Le paghe, stando ai risultati degli scarsi controlli ispettivi e delle inchieste della magistratura, possono arrivare anche a 2 euro l’ora, o anche meno se si tratta di lavoratori immigrati.

Se questi numeri ce li dà un organo ufficiale come l’ISTAT, evidentemente sarebbe possibile individuare il fenomeno, e ci sarebbero gli strumenti per combatterlo. L’ultimo rapporto dell’INPS, che si riferisce al 2010, parla di 88.000 ispezioni nelle aziende, che hanno portato a scoprire 67.955 posizioni aziendali irregolari, con 65.086 lavoratori totalmente in nero e 12.550 posizioni viziate da irregolarità. E’ solo una goccia nel mare, e l’attività ispettiva è uno di quei “costi” che la manovra del Governo ha destinato ai tagli. D’altronde, ogni regola, o vincolo, o tentativo di porre un argine allo sfruttamento, è visto come un attentato alla libertà di impresa non solo dalla coalizione governativa, notoriamente e apertamente schierata in tal senso, ma è accolto ormai senza scomporsi, quasi fosse la normalità, da un fronte sempre più ampio.

Anche il sindaco pd di Barletta, che in quanto tale deve fare i conti con le sue conseguenti responsabilità in materia di pubblica sicurezza, per gli allarmi inascoltati sulla palazzina pericolante, non ha trovato niente di meglio da dichiarare se non che sarebbe “un paradosso” se i titolari del maglificio “dopo aver perso una figlia e il lavoro, venissero anche denunciati. Non mi sento di criminalizzare chi, in un momento di crisi come questo, viola la legge assicurando però lavoro, a patto che non si speculi sulla vita delle persone”. Paradossale, più che altro, è un cosiddetto rappresentante delle istituzioni pronto ad assicurare l’impunità a chi viola la legge, basta che elargisca un lavoro a 3,95 euro l’ora in condizioni da terzo mondo, e con cinque morti ancora da seppellire. Se queste operaie non fossero state uccise dal crollo del laboratorio, avrebbero potuto essere ancora sfruttate impunemente!

Da gennaio a ottobre 2010 in Italia ci sono stati 306 morti sul lavoro. Quest’anno i morti, per lo stesso periodo, sono stati 369: in crescita, nonostante l’aumento della disoccupazione e le innumerevoli aziende che hanno avuto periodi più o meno lunghi di cassa integrazione. Una strage che non ha giustificazioni, e che continua a essere tollerata come un costo “ragionevole”, in nome del profitto.