Alla ex-Bertone di Grugliasco, i lavoratori, in cassa integrazione da anni, hanno votato a stragrande maggioranza una proposta di accordo, avanzata dalla direzione della Fiat, che è la fotocopia di quelli di Pomigliano e di Mirafiori. Ma qui la Fiom è il sindacato maggioritario e i suoi delegati hanno invitato a votare “Sì”. Il referendum si è svolto il 2 e il 3 maggio e l’accordo è stato siglato il giorno dopo con la firma di tutti i sindacati e delle RSU. La Fiom provinciale, con l’appoggio del segretario nazionale Landini, ha deciso di non firmare.
Di questa vicenda sono state offerte diverse letture. Il padronato ha subito cantato vittoria. La solita Marcegaglia ha affermato che nella Fiom c’è “una spaccatura tra base e vertice”. I lavoratori, dice, sarebbero ragionevoli e disposti alle trattative ma poi, c’è una “componente nazionale della Fiom che dice no, no, no”. Marchionne, vestiti gli abiti del sant’uomo, ha raccomandato di ascoltare i lavoratori come fanno lui e tutta il management del Gruppo: “Noi siamo partiti per fare il loro bene”.
C’è di che sciogliere i cuori più duri! Certo, per commuoversi veramente non si dovrebbe tenere di conto che la Fiat ha acquistato a suo tempo lo stabilimento della Bertone a prezzi stracciati e con il sostegno della Regione. L’impegno del Gruppo fu allora di iniziare in quel sito la produzione di un nuovo modello di Maserati e di mantenere il posto di lavoro a tutti i 1000 lavoratori in cassa integrazione. Non si parlò allora di newco né di deroghe al contratto nazionale. Rimangiandosi quell’impegno, Marchionne aveva detto a chiare lettere nei mesi scorsi che una non approvazione dell’accordo avrebbe significato la riconsegna della fabbrica al curatore fallimentare. Ecco il “doppio ricatto” di cui parlava, giustamente, il segretario della Fiom.
Sul “sì” della ex Bertone, ora Officine Automobilistiche di Grugliasco, si sono buttati come corvi anche gli esponenti del governo, in prima fila il ministro Sacconi e i segretari nazionali dei sindacati responsabili, nonché vari esponenti del Centrosinistra tra cui l’allora sindaco Chiamparino.
La spiegazione della Fiom è affidata alle parole del documento votato a grande maggioranza al Comitato centrale del 9 maggio in cui si approva la condotta tenuta dai componenti Fiom della RSU dello stabilimento di Grugliasco, le cui scelte “compiute e condivise, hanno permesso di sventare il doppio ricatto della Fiat, di evitare il licenziamento di quei mille lavoratori, di svuotare di significato un finto referendum che non permette un libero pronunciamento delle lavoratrici e dei lavoratori mantenendo aperta la vertenza generale di tutta la Fiom nei confronti della Fiat. La Fiom non firma e contrasta tale accordo separato”.
Dunque si sarebbe trattato di una sorta di ritirata strategica. Una spiegazione che non ha mancato di sollevare dubbi all’interno stesso del gruppo dirigente Fiom. Anche perché ci si scorge un eccesso di furbizia che rischia di infrangersi con la banalità del corso reale delle cose: Marchionne non si accontenterà della firma della RSU, per quanto a maggioranza Fiom, e vorrà quella della segreteria provinciale. Inoltre, sarà difficile che gli operai che a Mirafiori e a Pomigliano, su indicazione della Fiom, hanno votato contro l’accordo-diktat di Marchionne capiscano la differenza fra doppio, triplo o semplice ricatto. La credibilità della Fiom, e, cosa più importante, la fiducia nella possibilità di cambiare i rapporti di forza con il padronato attraverso la lotta, hanno subìto un duro colpo.
La Fiom ha annunciato che continuerà la sua azione sul piano legale. Sostiene l’illegalità di tutta l’operazione Marchionne in fatto di organizzazione del lavoro e di deroghe al contratto nazionale con il trucchetto delle newco. Certo, nessuna arma deve essere esclusa. Ma lo scontro con la Fiat ha una tale importanza per tutto il mondo del lavoro che non si può pensare di risolverlo facendo ricorso ai giudici e agli avvocati.
Da tempo avrebbe dovuto essere messo a punto un vero piano di lotte. Tra la manifestazione nazionale di Roma del 16 ottobre, per altro riuscitissima, e lo sciopero nazionale della Fiom sono passati tre mesi e mezzo. Tra questo e lo sciopero generale di tutta la Cgil ne sono passati altri tre. Che cosa ne possiamo concludere? Che la questione della ex-Bertone non si può valutare appieno se non si fa una considerazione più generale sulla politica del gruppo dirigente Fiom. Degli arretramenti e perfino delle ritirate sono sempre possibili, specie in un quadro sociale in cui prevale su ogni cosa la paura della perdita del posto di lavoro. Ma qui il problema è se si pensa che un attacco come quello sferrato da Marchionne, ben presto imitato da tante imprese di tutti i settori produttivi, possa essere respinto con una mobilitazione ogni tre mesi o non richieda invece una lotta segnata da scadenze ravvicinate e frequenti assemblee di fabbrica, una lotta prolungata, basata sul coinvolgimento attivo di un numero sempre maggiore di lavoratori, una lotta che metta al primo posto la difesa dei diritti conquistati in tanti anni di battaglie e non la sopravvivenza e la rispettabilità degli apparati burocratici del sindacato.
In attesa che gli apparati della Fiom o della Cgil si sentano pronti a promuovere qualche altra manifestazione, magari dopo il periodo estivo, il padronato prosegue nella sua azione quotidiana e il Ministro Sacconi viaggia spedito verso un altro accordo con i sindacati responsabili o verso una legge, o tutte e due le cose insieme, per togliersi definitivamente di torno il contratto nazionale e privilegiare gli accordi azienda per azienda.
È il caso di svegliarsi!