Il fallimento della lotta alla fame promossa dalla FAO
A Roma si è svolto, tra il 16 e il 18 novembre, il summit della FAO sulla “Sicurezza alimentare nel mondo”. La FAO è un’agenzia delle Nazioni Unite che si occupa dell’alimentazione e dell’agricoltura. Tutti i giornali hanno riportato gli aspetti più evidentemente “imbarazzanti” di questo convegno: le signore al seguito dei leader che mettevano in mostra un’abbondante gioielleria, la trovata di Gheddafi, che convoca, attraverso un’agenzia di hostess, duecento belle ragazze, vestite elegantemente, per fare loro un discorsetto e regalargli il Corano, i costi della preparazione e dell’organizzazione del summit, i ricevimenti, ma soprattutto l’assenza dei capi di governo dei paesi più ricchi, da Obama a Sarkozy alla Merkel.
Soprattutto è stato sottolineato, del tutto giustamente, che da questo summit non è uscito nessun impegno preciso, né in termini di tempi, né in termini di impegni finanziari, per combattere la fame nel mondo.
Berlusconi c’era, un po’ perché era, come dire, il padrone di casa, un po’ per scantonare il processo Mediaset che si celebrava a Milano e che è stato rinviato al 18 gennaio. L’occasione di una assemblea mondiale, per quanto depotenziata dall’assenza dei più importanti capi di governo, è troppo ghiotta per il Cavaliere; non sono quindi mancate le sue spiritosaggini. Ha riproposto, aprendo i lavori, la barzelletta su Marx, con tanto di “Lavoratori di tutto il mondo scusatemi”, che ormai fa parte del suo repertorio fisso.
In ogni modo, dalle parole del Direttore generale della FAO, il senegalese Jacques Diouf, saltano fuori dati che devono far riflettere e non incoraggiano certo il buonumore.
In un anno, dal 2008 al 2009, il numero di persone che soffrono la fame nel mondo è passato da 850 milioni a più di un miliardo. Il numero più alto dal 1970. Se si considera che, a suo tempo, la FAO si assegnò come obiettivo strategico il dimezzamento del numero degli affamati entro il 2015, si può capire quanto poco si è fatto e si sta facendo rispetto ai proclami e alle promesse del passato. Forse è per questo che i capi di stato e di governo dei paesi più potenti si sono defilati, per non dover ripetere lo stanco rituale delle dichiarazioni umanitarie seguite dal nulla, o forse, più semplicemente, perché della sorte degli affamati non si preoccupano per niente.
Se si guarda alla divisione della massa degli affamati secondo grandi gruppi regionali, si scoprono almeno due cose interessanti: la prima è che il numero maggiore è concentrato nell’Asia-Pacifico (642 milioni di persone), regione presentata spesso dalla stampa specializzata come polo di uno straordinario nuovo sviluppo economico. L’altra cosa è che l’incremento maggiore, anche se si tratta di numeri incomparabilmente più piccoli, si ha nel gruppo dei paesi sviluppati i cui 15 milioni di affamati rappresentano un aumento del 15,4% sull’anno precedente.
Il Direttore della FAO sostiene che a causa della fame muore un bambino ogni sei secondi. Per impedire questa strage degli innocenti occorrerebbero 44 miliardi di dollari l’anno. Può sembrare una cifra enorme, ma rappresenta soltanto il 3% di quanto gli stati di tutto il mondo spendono in armamenti. Che nessun governo, specie tra quelli dei paesi più ricchi, voglia impegnarsi veramente sul fronte della lotta alla fame è testimoniato anche dal fatto che dei 7 miliardi che dovevano essere stanziati entro lo scorso giugno da questi, nell’ambito del PAM (Programma Alimentare Mondiale), quasi la metà non sono ancora stati versati. Una delle conseguenze immediate è stato il dimezzamento delle razioni alimentari distribuite nei campi dei rifugiati, come nel caso del Darfour.
Una settimana prima, sempre a Roma, l’associazione Medici senza Frontiere aveva presentato un rapporto sulla malnutrizione infantile. Vi si sosteneva, tra l’altro, che i fondi stanziati dai paesi ricchi contro la malnutrizione sono rimasti invariati negli ultimi sette anni e che rappresentano il 3% della cifra che servirebbe secondo le stime della Banca Mondiale.
Si può essere sicuri che il dimezzamento del numero di malnutriti nel mondo sarà un obiettivo ancora lontano nel 2015. A meno che la fame di un sesto dell’umanità non divenga il detonatore di importanti rivolte sociali. Il capitalismo e i suoi rappresentanti politici, infatti, tengono più di ogni altra cosa alla stabilità del loro “ordine”. Un “ordine” difeso con eguale accanimento dai dirigenti “democratici” delle grandi potenze e dai sanguinari e corrotti dittatori che ne assicurano nei fatti il dominio del mondo. Sono i Mugabe, i Gheddafi, gli Ahmadinejad che, per quanto tentino di presentarsi come portavoce dei loro popoli, ne sono i più spietati oppressori. I loro governi liberano l’imperialismo “democratico” dal fastidio di un lavoro sporco: imprigionare, uccidere, torturare quanti, lottando per una vita dignitosa, metterebbero in pericolo la stabilità di un sistema mondiale.
In un mondo dove si muore di fame non perché non si produce abbastanza ma perché non si hanno abbastanza soldi per comprarsi un pezzo di pane, non è Marx che deve chiedere scusa.
RP