Che sia o no una provocazione, nel menu di quanto si intende far ingoiare ai lavoratori italiani c’è un altro ingrediente: stavolta ci risiamo con le gabbie salariali. O aziendali?
Sembra perfino surreale, ma nel Paese dei salari in picchiata, della cassa integrazione in esaurimento, dei redditi operai più bassi d’Europa (da tempo più bassi, come si sa, di Grecia e Portogallo, e appena più alti dell’Europa Orientale) c’è chi si ingegna per ridurli ancora e per aumentare la quota dei profitti. In piena recessione economica, l’esigenza più urgente e sentita è quella di preparare le condizioni per fare il botto con i profitti, nel caso di una prossima ipotetica ripresa. Le condizioni di crisi, come la storia ci insegna, sono l’ideale per questo scopo, e trovano sempre alfieri degni di questo nobile obiettivo. In questo frangente è la Lega Nord a occuparsene, sfruttando le pulsioni localiste per rilanciare l’idea delle gabbie salariali. Il ragionamento è semplice: perché pagare con lo stesso salario i lavoratori del Nord e quelli del Sud, se al Sud la vita costa meno? In realtà non si capisce bene se intendano aumentare i salari al Nord o diminuirli al Sud, ma l’effetto comunque è raggiunto: quello di ergersi a paladini dei salari, del Nord in particolare, e questo serve da bacino di consenso; ma soprattutto quello più concreto di contribuire a frazionare gli interessi della classe operaia, di spezzarne la forza, e di aprire la strada alle forme di contrattazione più spinte e sempre meno in grado di tutelare la reale consistenza dei salari. Non a caso la palla è stata immediatamente raccolta – e questo va da sé – dal Presidente del Consiglio Berlusconi, ma anche da autorevoli esponenti sia della maggioranza che dell’opposizione, e naturalmente da Confindustria, nella persona del direttore generale dell’organizzazione, Giampaolo Galli.
Secondo Galli, il problema non è tanto la differenza tra i salari del Nord e quelli del Sud, perchè tutto sommato ormai a Confindustria delle gabbie salariali non importa un fico secco. Il problema semmai è, in parole povere, ridurre il salario a una variabile dipendente esclusivamente da quanto l’impresa vuole erogare. E infatti così dichiara Galli alla Stampa del 10 agosto: “Se parliamo di una legge o una norma che definisca rigidamente differenziali per macroaree salariali, per Confindustria è una storia chiusa. Bisogna invece lavorare su differenziali retributivi tra singole aziende in funzione di obiettivi di produttività. Così si possono aumentare insieme i salari e la produttività.” Appunto: se si tratta di differenziare, facciamolo come si deve e operiamo nel concreto, così se i lavoratori vogliono qualche briciola in più sono costretti a lavorare di più.
Così la pensa Giuliano Cazzola,deputato PDL, vice presidente della Commissione Lavoro, che nelle gabbie salariali vede una buona opportunità, ma solo per pagare di meno i lavoratori meridionali del Pubblico Impiego. Per il resto, realisticamente fa notare che già il paragrafo 16 dell’accordo sulla riforma della contrattazione consente tutte le deroghe che si vogliono ai minimi contrattuali, per “affrontare situazioni locali di crisi e favorire lo sviluppo dell’occupazione” (La Stampa, 10.8.09). Esattamente così la pensa, per chiudere il cerchio, anche l’ineffabile Piero Fassino, PD. L’esponente dell’opposizione non si limita a perorare la causa dei salari legati alla produttività, ma rilancia addirittura la contrattazione aziendale, con toni da Confindustria: “Occorre ridare fiato alla contrattazione aziendale. Per questa via restituiamo ai lavoratori più salario e più potere d’acquisto”. E soprattutto invita la Cgil ad abbandonare qualsiasi velleità di resistenza e ad avviarsi insieme a Cisl e Uil sulla strada della totale acquiescenza ai voleri di Governo e Confindustria: “Chiedo alla Cgil di essere disponibile a riaprire un confronto senza rigidità pregiudiziali” (Corriere della Sera, 11.8.09).
Nemmeno la Cgil infatti, che pure non ha firmato l’accordo sulla riforma della contrattazione, ha saputo usare toni stringenti, anche se alla fine Epifani ha minacciato il ricorso alla mobilitazione per bloccare qualsiasi progetto di gabbie salariali. Bonanni ha tenuto la scena tuonando contro il presunto carattere sovietico e illiberale di una norma che ingabbiasse i salari e non li lasciasse alla libera contrattazione tra le parti, come se la Cisl fosse capace di gestire trattative dagli esiti superiori all’accettazione supina di qualsiasi condizione imposta dalla controparte. Ma se la segretaria Confederale CGIL Morena Piccinini ha individuato nelle gabbie salariali uno strumento che favorisce la disgregazione dell’unità del mondo del lavoro, un’altra segretaria Confederale, Nicoletta Rocchi, dichiara seccamente al Corriere della Sera del 12 agosto che serve una svolta nella Cgil, per trasferire la contrattazione a livello aziendale o territoriale, “riducendo il ruolo del contratto nazionale a contratto di garanzia inderogabile” (Corriere della Sera, 12.8.09). E’ chiaro che in Cgil non manca chi si accoderebbe volentieri alla marea montante insieme a Governo, opposizione, Confindustria, Cisl e Uil, e probabilmente l’esito del confronto si vedrà al prossimo Congresso.
Il giro a questo punto è completo. Mentre così le “parti sociali” discutono sul futuro dei lavoratori, purtroppo manca una voce autonoma dei lavoratori stessi. I più anzi sono attratti dalle sirene leghiste, e parlano attraverso i risultati dei sondaggi, dove pare (sondaggio IPR MARKETING) che al Nord il 75% vorrebbe le gabbie e il 21% sarebbe contrario, al Sud la proporzione sarebbe sostanzialmente inversa. Nel dibattito viene appena rammentato che già oggi in effetti i salari sono più alti al Nord che al Sud di un buon 16%, come sostengono Istat e Banca d’Italia; un divario che raggiungerebbe il 20,4% secondo i dati dell’indagine europea sulle condizioni socio-economiche delle famiglie.
E ancora una volta, in questo dibattito sui redditi dei lavoratori – in definitiva sulla loro pelle - non c’è spazio per qualche dato rivelatore sul livello di rapina che i salari subiscono: secondo Eurostat, l’Istituto Europeo di Statistica, il carico fiscale sul lavoro è il più alto d’Europa, a quota 44% contro una media continentale del 34,4%.