Non si va alla guerra senza armi

Più di vent’anni di arretramenti nelle condizioni della classe operaia. Cosa serve per invertire la direzione?


La tornata dei contratti nel Pubblico Impiego si sta chiudendo con una serie di intese che la stessa burocrazia sindacale definisce “di resistenza”, dove cioè non è possibile rintracciare il raggiungimento di obiettivi ma, nel migliore dei casi, un modesto contenimento dei danni. Non fa eccezione il contratto delle Autonomie locali, che anche la CGIL ha firmato e che assicura aumenti magrissimi, ancora una volta in pratica a partire dal 2009, e ampiamente al di sotto del tasso d’inflazione. Il concetto di resistenza si riferisce però soprattutto al fatto che il contratto non tocca fino ad oggi la parte normativa. Al momento in cui scriviamo non c’è alcuna certezza sugli sviluppi della situazione, ma è certo che in ambito governativo si prepara un peggioramento consistente delle condizioni di lavoro per questa categoria.

Non è certo qualcosa di diverso da quanto è successo per altre categorie di lavoratori. Da tempo sappiamo e scriviamo che la classe lavoratrice ha pagato negli anni il contenimento dell’inflazione, l’entrata nell’Unione Europea, il mantenimento degli alti livelli di profitti nelle aziende, e oggi paga la crisi recessiva, che non risparmierà nessuna categoria di lavoratori. Nonostante le occasioni di lotta, che pure ci sono state, forse non è inutile prestare un po’ di attenzione a quello che ci racconta la nostra storia.

Nel decennio 1969-1978, le ore di lavoro perse per scioperi furono in media 143 milioni l’anno, con una punta di 302 milioni nell’autunno caldo.

Nel decennio 1998-2008 le ore di lavoro perse per scioperi sono state in media 5,8 milioni l’anno.

Il giornalista Massimo Mucchetti sul Corriere della Sera del 28 maggio scorso esamina questi dati, aggiungendo alcuni elementi interessanti circa la composizione delle aziende. Ancora alla fine degli anni Settanta l’industria assorbiva circa il 35% dei lavoratori dipendenti; dopo trent’anni è scesa al 23%. Le imprese sopra i 250 addetti hanno ridotto l’occupazione da 1,7 milioni nel 1971 a 952.000 nel 2008. La FIAT stessa è passata da 50.000 a 13.000 addetti; nel suo bilancio del 1970 il suo attivo era composto per il 71,9% dall’attività industriale e il 28,1% dagli investimenti finanziari. Nel 2006 le attività finanziarie erano salite al 70,4%.

Questi dati ci interessano perché descrivono in modo scarno, ma efficace anche se ovviamente non esaustivo, le difficoltà che affronta il movimento dei lavoratori. Sono difficoltà oggettive, legate alle trasformazioni avvenute nel capitale, che tenta di mantenere alti i profitti erodendo la quota destinata al lavoro, ma anche ancorando i profitti sempre meno all’apparato produttivo e sempre di più alla speculazione finanziaria; e crea così i presupposti per le crisi come quella che stiamo attraversando. Sono difficoltà organizzative, dovute alla frammentazione industriale, al progressivo dissolversi - in piccole e piccolissime aziende - di una forza formidabile, se espressa in forma collettiva. Sono difficoltà nelle forme di rappresentanza politica, che ad oggi la classe operaia non riesce a darsi. Sicuramente non funziona l’apparato di rappresentanza sindacale, sempre più organizzazione burocratica autoreferenziale.

Sono difficoltà negli strumenti: in un momento di grande espansione, come quello che si verificò negli anni ’60, sono state necessarie 143 milioni di ore di scioperi l’anno per raggiungere, e poi per difendere, una serie di conquiste importanti. Nel decennio che abbiamo alle spalle, abbiamo raggiunto i 5,8 milioni di ore l’anno, poco più del 4% di quella cifra, un numero irrisorio. E’ come andare alla guerra con una spada di cartone.