Per una resistenza sociale

Nessuno sa bene quando finirà la crisi. Secondo il presidente della Banca centrale europea (BCE), Jean Trichet, ne avremo almeno per un anno ancora. Barack Obama ha commentato con queste parole la situazione economica in America: “Siamo nella peggiore recessione dai tempi della Grande Depressione. Ci sono voluti anni per finirci dentro, ci vorranno ancora mesi per uscirne”.

L’unica produzione che le economie di tutto il mondo stanno incrementando è la produzione di disoccupati.

Centinaia di migliaia di posti di lavoro saranno eliminati in Europa nei prossimi mesi.

In una situazione del genere, chi conserva il posto di lavoro appare come un privilegiato.

Le correnti più apertamente reazionarie speculano politicamente su questa situazione. Seguendo un copione vecchio come la storia delle lotte operaie, cercano di mettere un lavoratore contro l’altro. In Italia, Berlusconi deve pagare sempre più tributi al successo elettorale della Lega, e la rapida approvazione al Senato delle leggi sulla “sicurezza”, che pure hanno irritato le componenti cattoliche moderate della sua coalizione, è uno di questi tributi.

Ma per quanto Bossi sbatta i suoi portavoce in televisione, con la loro faccia da bulletti figli di papà e la loro arroganza da fascistelli ginnasiali, a spiegarci che l’origine di tutti i nostri mali sono gli immigrati “clandestini”, gli sviluppi della crisi ci raccontano una storia diversa. Ci raccontano di fabbriche che chiudono lasciando senza lavoro italiani e immigrati, senza distinzione, e ci raccontano di imprenditori italianissimi e anche padani, che spostano la loro azienda in zone dove i salari sono un quinto o anche meno di quelli italiani, fregandosene altamente se i loro connazionali finiscono sul lastrico.

Se esiste una possibilità di resistere al maglio della crisi, questa passa senza dubbio dall’unità dei lavoratori e dei disoccupati di tutte le nazionalità e di tutte le categorie.

Non è solo la crisi, però, che suscita preoccupazioni per il futuro. È anche, paradossalmente, il dopo-crisi. Sempre più spesso si legge che “niente sarà più come prima” o che la crisi potrà essere l’ “occasione” per ristrutturare imprese industriali e di servizi. Lo dicono i maggiori esponenti del grande capitale e i loro portavoce nella politica, nel giornalismo , nel mondo accademico.

Tutte queste chiacchiere significano una sola cosa: l’economia della “ripresa”sarà un’economia con meno lavoratori, con meno salari e con più profitti. Un’economia più “snella”, come direbbero quelli che sono pagati per abbellire il capitalismo. Un abisso ancora più profondo di sfruttamento, di precarietà e, per molti, di vera e propria miseria, come a noi sembra più giusto e più vero dire.

Di solito nei momenti di più acuta crisi il padronato e il governo preparano le condizioni perché i lavoratori non possano avere neanche le briciole del successivo periodo di ripresa economica. I lavoratori, oggi, dovrebbero fare l’opposto: resistere con gli scioperi, le dimostrazioni di strada, i sit-in, ai licenziamenti, alle ristrutturazioni, alle chiusure di fabbriche. Dovrebbero farsi sentire molto di più, per imporre misure straordinarie di tutela della loro stessa sopravvivenza,come una indennità di disoccupazione che consenta di vivere dignitosamente o la spartizione del monte ore di lavoro, a parità di salario, fra tutti i dipendenti di una stessa azienda, in caso di rallentamento della produzione.

Bisogna diradare le nebbie del pregiudizio, diffuso a piene mani dagli stessi dirigenti sindacali, secondo il quale l’”economia nazionale” non avrebbe risorse da mettere a disposizione per misure a favore dei lavoratori e dei ceti popolari. Le risorse, ovvero i soldi, ci sono: basta volerli prendere dalle tasche di chi ha fatto il pieno di profitti negli ultimi decenni.

Solo difendendosi duramente oggi si potrà domani pretendere qualche cosa di più del semplice mantenimento delle attuali condizioni di vita.