Nel pantano della recessione mondiale, lo studio annuale dell’OCSE sui salari conferma la tendenza dell’anno precedente. Nemmeno l’Islanda, che ha dichiarato bancarotta, ha salari peggiori di quelli italiani. E, mentre i salari sono minimi, la tassazione sui salari è ai massimi livelli.
Non sarebbe più nemmeno una notizia, se non fosse comunque una conferma: anche per quest’anno l’OCSE ribadisce la “performance” dell’Italia – negativa o positiva, a seconda di come la si guarda – sui salari. Le buone notizie per la borghesia nostrana vengono anche quest’anno dai dati forniti dall’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo, che prende in esame i 30 Paesi più industrializzati del mondo, europei e non. In base a questi dati, l’Italia non si muove dalla posizione occupata esattamente un anno fa nella stessa classifica: era in 23° posizione, e tale resta, alle spalle di Paesi come la Grecia, al 15° posto, l’Islanda, al 19° posto dopo aver dichiarato bancarotta solo qualche mese fa, e la Spagna (20° posto), e immediatamente prima del Portogallo, della Repubblica Ceca, della Turchia e della Polonia, che occupano le posizioni successive. I dati sono espressi in dollari, perché accomunano sia Paesi che pagano in euro sia Paesi che pagano in altra moneta, e soprattutto sono calcolati a parità di potere d’acquisto, cioè equilibrando le cifre assolute con il livello dei prezzi. Il salario medio netto di un lavoratore italiano senza carichi di famiglia ammonta quindi a 21.374 dollari, il 17% in meno della media totale OCSE, e ben il 44% in meno di un inglese, il 32% in meno di un irlandese, il 28% in meno di un tedesco, il 18% in meno di un francese.
Eppure, nel Paese a più alta evasione fiscale in Europa, dove esistono studi commerciali specializzati nell’elusione fiscale, cioè nell’arte di non pagare le tasse con l’aiuto delle leggi, il prelievo fiscale sulle buste paga è stratosferico e schizza alle posizioni più alte della classifica. Dal 23° posto si passa direttamente al 6° posto: il peso della tassazione e dei contributi sul guadagno annuale medio di un lavoratore italiano senza carichi di famiglia è del 46,5%; un po’ meno – il 36% - se il lavoratore è sposato e ha due figli a carico. Da anni il drenaggio fiscale, cioè l’aumento proporzionale del peso delle tasse sul reddito nominale dei lavoratori falcidiato dall’inflazione, non è stato oggetto di nessun provvedimento di restituzione da parte di nessun Governo, e nemmeno di serie rivendicazioni sindacali. In un momento di crisi recessiva come quello attuale, tra le parole d’ordine concrete che un sindacato degno di questo nome poteva mettere all’ordine del giorno, la restituzione del drenaggio fiscale avrebbe dovuto essere ai primi posti.
Come se non bastasse, se parliamo di buone notizie per la borghesia nostrana è perché non è vero che le paghe sono basse soltanto per l’alto prelievo fiscale: basso in rapporto agli stipendi è già il salario lordo, cioè quanto pagano le aziende. Il vecchio tormentone dell’alto costo del lavoro (ma quale?) in Italia si rivela alla prova dei fatti niente di più che uno dei consueti argomenti di propaganda, buoni per imporre nuove condizioni peggiorative. I semplici numeri infatti raccontano una realtà molto diversa: preso come unità di misura un lavoratore dipendente senza carichi di famiglia, il suo costo per le aziende, in altre parole il suo salario lordo, è di 30.245 dollari. In Spagna è di 30.422 dollari, ma in Grecia sfiora i 34.000 dollari, mentre in Francia e in Svezia si raggiungono i 36.000-37.000 dollari. Sopra i 40.000 dollari si piazzano americani, danesi, belgi e olandesi, mentre inglesi e tedeschi superano i 51.000 dollari.
Le aziende italiane godono quindi di un costo per unità di forza lavoro ampiamente più basso della media europea, e tra i più a buon mercato del mondo. E’ una classe imprenditoriale che notoriamente paga le tasse con molta parsimonia, e se può evita accuratamente di pagarle; che si aspetta e pretende interventi dello Stato in caso di crisi e ristrutturazioni; che invoca “soldi veri” non appena i suoi profitti sono minacciati, come nel caso della recessione in corso, ma si rifiuta di investire in ricerca, e fa appello allo Stato perché doverosamente la finanzi. D’altro canto, la classe operaia italiana dovrebbe disporre di un apparato sindacale tra i più attrezzati e organizzati non solo in Europa, ma anche nel mondo, con una media di iscritti record. Il minimo che se ne possa dedurre è una valutazione di scarsa produttività di questo apparato sindacale. Anche perché mentre negli ultimi 15 anni il potere d’acquisto dei salari è rimasto pressoché fermo (+0,2% annuo), una recente analisi della Banca d’Italia, riferita in Senato dall’economista Andrea Brandolini il 21 aprile scorso, racconta un’altra storia per i cosiddetti “lavoratori autonomi”. Negli anni dal 1993 al 2006, il reddito a disposizione delle famiglie di commercianti è aumentato del 2,6%, quello dei managers dell’1,5%. Dall’abolizione della scala mobile in poi, le differenze si sono accentuate fino a diventare scandalose. E dopo il danno, c’è anche la beffa: secondo il Ministro Sacconi “Negli anni Novanta l’Italia ha scelto una strada sbagliata per aderire ai parametri europei: quella della cosiddetta moderazione salariale. Così un modello contrattuale fortemente centralizzato ha dato luogo a bassi salari e bassa produttività”.
E dopo il danno e la beffa, il nuovo danno e la nuova beffa della riforma del modello contrattuale: a questo punto, per avere anche minimi aumenti salariali, si pretende anche un aumento della produttività.
I lavoratori devono essere coscienti di quanto sia aumentato negli anni il loro livello di sfruttamento e devono rivendicare finalmente degli obiettivi concreti: per imporre un reddito che consenta una condizione di vita dignitosa, non ci sono alternative a una vera scala mobile dei salari e alla restituzione del drenaggio fiscale.