Per quanto Berlusconi e i suoi ministri si affannino a sminuire la gravità della crisi e il suo prolungarsi, i lavoratori sanno bene che nei prossimi mesi non ci sarà da aspettarsi niente di buono. Lo sanno in modo particolare i lavoratori del settore privato, esposti più degli altri alla disoccupazione.
Per riferirsi a qualche dato recente, l’associazione dei datori di lavoro del settore meccanico, la Federmeccanica, ha comunicato che la produzione nelle aziende associate è calata del 30% nei primi tre mesi dell’anno, il doppio degli altri settori manifatturieri. La stessa Associazione riferisce che il 40% delle proprie aziende prevede tagli di organico nei prossimi mesi. Secondo la Fiom, il sindacato dei metalmeccanici della Cgil, le ore di cassa integrazione sono decuplicate dallo scorso autunno. Attualmente, tra un quarto e poco meno di un terzo dei metalmeccanici italiani è in cassa integrazione.
I sindacati accusano il governo di non spendere quanto i governi europei per sostenere i lavoratori che si troveranno senza niente in mano allo scadere del periodo di copertura della cassa integrazione ordinaria. Ancora di meno si fa per i precari e per i dipendenti di piccole e piccolissime imprese privi di qualunque “paracadute”. Il tema è entrato anche a far parte della campagna elettorale del PD e dell’Italia dei Valori.
Ma che il governo non faccia nulla o quasi per chi ha perso o rischia di perdere il posto di lavoro si è capito da tempo. Quello che non si è capito bene è che cosa intende fare il sindacato, oltre a implorare di essere preso in considerazione.
È tempo di svegliarsi. È tempo di smetterla di affidare la nostra vita ai capricci dei politici o al nullismo dei dirigenti confederali.
Oggi la domanda che bisogna porci è: quanto siamo ancora disposti a sopportare?
Perché se, nonostante tutte le chiacchiere dei vari segretari sindacali sulla concertazione, sulla collaborazione delle parti sociali, ecc., il padronato e il governo proseguiranno per la loro strada, e c’è da scommettere che sono intenzionati a farlo, tra qualche mese ci sarà una crescita drammatica della miseria per milioni di famiglie di operai.
Ci si dice: “Ci vorrebbe una politica sociale diversa”. Benissimo, siamo d’accordo. Ma se questa politica sociale non viene attuata? Se i diritti dei lavoratori continueranno ad essere calpestati? Non è allora il caso di pensare a come rispondere, a come difendersi collettivamente?
Davanti a noi, davanti all’insieme dei lavoratori, ci sono due passi obbligati: il primo è definire pochi obiettivi essenziali che rappresentino gli interessi di tutte le categorie del lavoro dipendente di fronte alle conseguenze della crisi, ad esempio, la garanzia di un salario per tutti, la suddivisione del monte ore di lavoro a parità di retribuzione, senza mettere nessuno fuori dalla fabbrica, il divieto dei licenziamenti.
Il secondo passo è la definizione dei mezzi con i quali si intendono ottenere questi obiettivi.
Ci sono, in ogni grande azienda e in tutte le categorie, dei lavoratori più attivi degli altri. Senza di loro, in realtà, non potrebbero nemmeno sopravvivere le strutture dei sindacati. A volte sono delegati, a volte semplici militanti. Questi lavoratori sono quelli che nel corso degli scioperi sanno organizzare e rincuorare i propri compagni di lavoro, quelli che sanno tenere testa agli abusi del padrone e si preoccupano di tutelare la propria e l’altrui dignità nell’officina o nell’ufficio, bisogna che parta da loro, indipendentemente dalla tessera sindacale che hanno in tasca o dal partito che hanno o non hanno votato, la spinta per una lotta generale condotta con decisione e appoggiandosi a scioperi ben organizzati e in grado di incidere profondamente sui profitti degli imprenditori.
Senza il peso di una “minaccia” che grava direttamente sui loro portafogli, gli esponenti del padronato continueranno a prenderci in giro, fingendo magari di essere “sinceramente dispiaciuti” di… buttarci sul lastrico.