Quasi cinque anni di discussioni e di ipotesi. Ma passa in un assordante silenzio la riforma del modello contrattuale, che segna la fine del contratto nazionale, così come lo avevamo conosciuto, e sancisce ufficialmente la diminuzione programmata dei salari.
“Mi chiede con quali regole si rinnoveranno i prossimi contratti? Con quelle della giungla, con la legge del più forte”, così il segretario Cgil Guglielmo Epifani ha sintetizzato, in un’intervista a La Repubblica del 24 gennaio scorso, le risultanze dell’accordo sul nuovo modello contrattuale, siglato il 22 gennaio da Cisl, Uil, Ugl e dalle rappresentanze cosiddette “datoriali”. In effetti, pur sembrandoci opportuno precisare che con la legge del più forte sono stati siglati sempre e comunque tutti gli accordi sindacali, dove i rapporti di forza sono appunto la misura dei vantaggi e degli svantaggi, bisogna affermare con chiarezza che questo accordo mette il sigillo su rapporti di forza decisamente sfavorevoli alla classe operaia, e prepara anni difficili per tutti i contratti di lavoro a venire. I redditi dei lavoratori dipendenti sono destinati a discendere una china che non si è mai arrestata a partire dall’inizio degli anni ’80, e ha subito una brusca accelerazione dopo gli accordi del ’92-’93 e la fine della scala mobile.
Sono scesi costantemente i salari, fino a raggiungere i livelli più bassi d’Europa, ma ancora non bastava. E allora ecco il nuovo modello, che il giorno dopo la firma occupava non più di mezza pagina sui giornali a tiratura nazionale. Poche righe per celebrare il definitivo affossamento di fatto del contratto nazionale, e un’altra pesante sconfitta per la classe operaia.
I contratti saranno non più biennali, nemmeno per la parte economica, ma triennali, una condizione per la quale avevano già fatto da apripista gli ultimi contratti dei lavoratori pubblici.
Gli aumenti saranno calcolati non più in base alla tristemente nota inflazione programmata, ma secondo un nuovo indice previsionale, il misterioso IPCA, per la comprensione del quale il testo dell’accordo rimane volutamente vago: trattasi dell’ “indice dei prezzi al consumo armonizzato in ambito europeo per l’Italia, depurato dalla dinamica dei prezzi dei beni energetici importati. L’elaborazione della previsione sarà affidata ad un soggetto terzo.” Questa frase criptica significa in pratica che per calcolare gli aumenti contrattuali si utilizzerà un indice il cui funzionamento non è chiaro (provate a digitare INDICE IPCA in un qualsiasi motore di ricerca su internet), nel quale comunque non saranno compresi gli aumenti dei prezzi relativi ai beni energetici, cioè carburanti, gasolio, metano da riscaldamento, e tutto quanto dipende per il prezzo dai derivati del petrolio. In questo modo si scaricheranno sulle retribuzioni le fluttuazioni dell’inflazione, di cui i prezzi energetici sono parte consistente. Dopodiché il conteggio effettivo della previsione dovrà essere effettuato da un soggetto che l’accordo definisce genericamente “terzo”, senza ulteriori indicazioni. Non ci vuole molta fantasia per capire che non saranno i lavoratori a scegliere il famoso “soggetto terzo” che deciderà gli aumenti sulle loro buste paga.
La verifica a consuntivo degli scostamenti dall’inflazione verrà affidata invece a enti paritetici interconfederali, cioè altri carrozzoni gestiti sia dalle organizzazioni sindacali che da quelle imprenditoriali, e l’eventuale recupero (auguri!) avverrà in teoria entro la vigenza contrattuale per i lavoratori del settore privato, entro il triennio ancora successivo per il settore pubblico. Per questi ultimi lavoratori addirittura si terrà conto “dei reali andamenti delle retribuzioni di fatto dell’intero settore”, e quindi il calcolo comprenderà non solo le retribuzioni “normali” dei lavoratori con un contratto, ma anche il malloppo che riceve tutta quella parte di lavoro pubblico non contrattualizzata, come Forze Armate, Magistratura, etc., che di solito gonfia la spesa degli stipendi pubblici e fa affermare dai Ministri che i dipendenti pubblici hanno avuto aumenti stratosferici, ma di cui il lavoratore ordinario non usufruisce minimamente. Come se non bastasse, gli aumenti si calcoleranno solo sullo stipendio base, escluso qualsiasi salario accessorio; con il nuovo modello contrattuale, secondo calcoli Cgil, ogni punto percentuale perde il 30% del suo valore.
Ancora più grave è la perdita, per il contratto nazionale, del suo ruolo unificante: “Specifiche intese potranno modificare, in tutto o in parte, anche in via sperimentale e temporanea, singoli istituti economici o normativi dei contratti collettivi nazionali di lavoro di categoria”. E poiché quest’ultimo provvedimento è funzionale a “governare, direttamente nel territorio o in azienda, situazioni di crisi o per favorire lo sviluppo economico ed occupazionale”, va da sé che le modifiche in questione potranno essere solo peggiorative. In pratica, niente è più sicuro. Tutto è affidato alla forza che si riuscirà a mettere in campo nelle singole trattative aziendali: e non sarà la stessa che avrebbe potuto mettere in campo una intera categoria a livello nazionale.
Per il secondo livello di contrattazione, l’accordo si preoccupa semplicemente di collegare gli eventuali incentivi economici al raggiungimento di obiettivi di produttività, redditività, qualità, efficienza, efficacia, competitività, risultati nell’andamento economico delle imprese; ma non offre la minima garanzia economica. Al momento, data la situazione di crisi delle aziende, le probabilità di spuntare qualche aumento in contrattazione aziendale sono puramente illusorie.
A coronamento dell’operazione, si attacca infine il diritto di sciopero, prevedendo che siano le parti sociali a stabilire chi ha diritto a proclamare lo sciopero o no.
Nei giorni successivi all’accordo, mentre la Cgil denunciava con le nuove regole una perdita secca di circa 1.300 euro nella vigenza contrattuale per i lavoratori del settore privato, e una cifra ancora maggiore per i lavoratori pubblici, c’è stata un’immonda gara di Confindustria a chi le sparava più grosse sulle mirabolanti cifre che sarebbero venute in tasca ai lavoratori. Secondo il vicepresidente Bombassei, in un’intervista al Corriere della Sera del 27 gennaio, nel corso di una vigenza contrattuale i salari aumenterebbero di ben 2.500 euro, e questo mentre lo stesso Bombassei affermava come fosse stato compiuto un altro passo verso lo spostamento del baricentro dalla contrattazione nazionale all’impresa, per aumentare i salari solo dove aumenta la produttività.
Pertinente la nota stampa di Giorgio Cremaschi, membro della segreteria FIOM Cgil, che rilancia: “Confindustria mescola promesse con dati statistici per costruire un risultato che gli stessi imprenditori smentiranno al primo negoziato reale. In ogni caso, questi dati, che vengono ripresi dal vicepresidente della Confindustria, per noi avranno un valore. Le prossime piattaforme aziendali, le prossime vertenze contrattuali, dovranno dare per acquisiti questi soldi che il centro studi di Confindustria garantisce. Quindi Bombassei, Marcegaglia, il mondo delle imprese, si preparino a dover pagare 2.500 euro in più per lavoratore, rispetto a quello che hanno pagato finora”.
Magari……