Decine di milioni di aziende producono per un mercato, cioè per un insieme di persone in carne e ossa, di cui conoscono poco o niente. Magari si produce in Italia quello che sarà consumato in Brasile o in Giappone. Nell’ambito dell’economia finanziaria, si muovono per tutti i continenti masse di capitali, scommettendo sul rendimento maggiore, non possedendo come bussola molto più di una serie di valutazioni che si basano su quello che si è verificato fino a quel momento ma che nessuno può garantire che si verificherà in futuro. Ogni investitore, dall’azienda individuale alla grande corporation, cerca di ottenere il massimo profitto ed esercita, in modo più o meno proporzionale alla propria forza economica, una pressione sul proprio ambiente. Dal consiglio di amministrazione di una società per azioni, all’anticamera di un partito parlamentare, dalla Chiesa alla banca. Questa anarchia economico-sociale è, in tempi normali, il capitalismo dei nostri giorni. Se un caos del genere caratterizza i rapporti economici mondiali, c’è da stupirsi quando tutto sommato l’economia “funziona”.
Lo scoppio delle crisi alimenta puntualmente il dibattito sui modi per evitare che tale crisi si ripeta ancora. Un dibattito che non porterà da nessuna parte nella misura in cui non si parte dalla considerazione dell’economia capitalistica come anarchica ed essenzialmente ingovernabile.
Anche questo, comunque, è tipico della storia del capitalismo. In modo particolare sono tipiche le invocazioni all’istituzione di nuove regole per il mondo finanziario ed è tipico l’alternarsi delle scuole di pensiero prevalenti. Così, da qualche tempo, si assiste ad una “rivalutazione” dl ruolo dello stato nell’economia che dal mondo reale si è trasferita presto in quello delle teorie economiche. I professori del liberismo devono adeguarsi o restare un po’ in disparte. I più giovani di loro possono forse sperare nel prossimo cambiamento di vento. Sulla base della più recente esperienza, potrebbe verificarsi tra circa 25 o 30 anni, tanti ci separano dall’era aperta dalla Thatcher, da Reagan e dal “pensiero economico” neo-liberista.
Le maggiori agenzie di rating e di revisione. Cioè le “fonti autorevoli” che di solito si citano in tutti gli articoli e in tutti i dibattiti su temi economici, non avevano previsto né questa né le precedenti crisi. Non è da credere che le politiche anti-crisi dei governi poggino su maggiori capacità di analisi e previsione.
Ma poi, che cosa sono tutti questi provvedimenti anti-crisi? Sono essenzialmente una serie di regali a questa o a quella impresa industriale, commerciale o finanziaria, sono l’impegno ad usare il denaro dei contribuenti per rimettere in moto la macchina dei profitti e sono, quando e se rimane qualche briciola, la distribuzione di quel tanto di elemosine che si stimano sufficienti a mantenere sotto controllo il malcontento sociale.
In ogni caso, quella che da più parti si invoca: una politica economica “in grado di farci uscire dalla crisi”, non è altro che una serie di misure atte a proteggere i profitti sotto l’ombrello dei governi. Per il resto si brancola nel buio.
Per i lavoratori la “via d’uscita” non può essere evidentemente la stessa dei grandi gruppi industriali e finanziari. Questi chiedono di nuovo lacrime e sangue, chiedono di poter licenziare impunemente e di poter frenare ancora i salari. Invece occorre far quadrato attorno ai salari e ai posti di lavoro, anche a partire da quanto si riesce a strappare nelle singole aziende e nelle categorie. Ma occorre anche che la classe lavoratrice trovi la “via d’uscita” da un’economia che produce sempre più catastrofi per la maggioranza della popolazione.
Non siamo tutti uguali davanti alla crisi, i ricchi non piangono affatto. Prendiamo da una rivista specializzata nel mondo del lusso, “World and Pleasure”, questa citazione: “I ricchi non cambieranno modo di vivere, forse saranno più discreti e non sarà più opportuno esporre una borsa da 20 mila euro in vetrina, ma tenderanno a mantenere il loro stile di vita”.
Siamo stufi di vedere rotolare sempre più in basso il nostro “stile di vita” per consentire alle classi privilegiate di mantenere o innalzare il loro.