A cose fatte, anche la stampa borghese "cade dalle nubi" e si sente in dovere di scoprire che dal 1 gennaio 2009 diminuiscono i coefficienti di rendimento delle pensioni. Chissà perché, il provvedimento contenuto nel protocollo sul welfare, ufficialmente votato a suo tempo da cinque milioni di lavoratori, viene oggi definito come "conosciuto da pochi".
La generazione di figli che stanno peggio dei genitori è ufficialmente cominciata da tempo, ma ciò che già oggi è sotto gli occhi di tutti è soltanto l’inizio: dopo una vita da precari e salari insufficienti, quelli che oggi sono giovani sperimenteranno sicuramente pensioni sotto la soglia di povertà. E’ una prospettiva che le nuove leve nel mondo del lavoro vedono ancora lontana e quindi poco reale, ma che per i cinquantenni comincia a prendere corpo e si traduce in numeri a breve scadenza e niente affatto rassicuranti. Il peccato originale consisterebbe nel fatto che i pensionati vivono per troppi anni, per cui l’ammontare mensile delle loro pensioni deve essere più basso.
Con questi presupposti, a partire dal 1 gennaio 2010 scatta la revisione triennale dei coefficienti di rendimento delle pensioni. Tanto per essere chiari, il coefficiente di rendimento delle pensioni è un parametro numerico che si moltiplica per i contributi versati dal lavoratore nell’arco della sua vita lavorativa, e dà come risultato la cifra che il lavoratore prenderà come pensione. La revisione di questo coefficiente era una norma minacciosa già prevista nella riforma Dini del ’95, ma per dieci anni tutti avevano fatto finta di dimenticarsene, finché il Governo Prodi e l’allora ministro del Lavoro Damiano non la risuscitarono. La revisione triennale dei coefficienti di rendimento è uno dei provvedimenti inseriti in quel protocollo sul welfare firmato da Cgil Cisl Uil e fatto passare tra i lavoratori con un referendum dalla partecipazione spettacolare, accreditata all’epoca di oltre cinque milioni di partecipanti, con risultati favorevoli superiori all’80% (Il Sole 24 Ore titolò 81,59%). Come siano andate veramente le cose ce lo ricordiamo tutti. Se l’organizzazione della consultazione presentò senza imbarazzi una serie interminabile di scorrettezze, il dato più grave è stato proprio che l’accordo per una riforma simile fosse presentato dai sindacati come un’opportunità per i lavoratori, l’unico mezzo per abolire il famoso "scalone". A suo tempo, denunciammo in modo chiaro che nessun onere risultava a carico dello Stato per quella riforma, ma che il pacchetto era interamente a carico dei lavoratori: se per qualcuno diventava un guadagno, altri dovevano farsene carico. Oggi siamo al dunque, e all’improvviso se ne accorgono tutti.
La Repubblica del 12 novembre scorso scopre "silenziosa e implacabile, la nuova tassa occulta" di cui "non si parla tanto" e che "pochi conoscono". In teoria almeno cinque milioni di lavoratori la dovrebbero conoscere perfettamente, e anzi approvare con entusiasmo: questa che lo stesso giornale chiama una "tassa sulla speranza di vita" non si limita a costringerli ad andare in pensione il più tardi possibile, ma falcidia le loro pensioni, e stava scritta a chiare lettere nel protocollo sul welfare. Evidentemente si era distratta anche (e soprattutto) la Cgil, che su La Stampa del 4 dicembre lamenta la mancata "istituzione di una commissione per verificare l’impatto dei nuovi coefficienti" e chiede – è perfino superfluo specificarlo – l’ennesimo tavolo "per valutare le ripercussioni di questo cambiamento e per evitare che le pensioni si impoveriscano ancora. I soldi ci sono, i bilanci degli enti previdenziali sono in attivo". Campa cavallo, risponde Paolo Reboanti, collaboratore del Ministro Sacconi: "Fu una scelta che si fece a suo tempo proprio per evitare il riaprirsi di un continuo dibattito politico-sindacale su un fattore che è puramente tecnico". E così il discorso è chiuso: è inutile che la Cgil, dopo essersi tagliata gli attributi – o meglio dopo averli tagliati ai lavoratori – tenti di riattaccarli con il vinavil. Non c’è commissione che tenga. La firma è fatta, l’applicazione automatica è possibile, figuriamoci se il Governo intende sedersi a un altro tavolo. Come altre volte in passato, sul tavolo che contava i lavoratori hanno lasciato un altro pezzo dei loro diritti, in cambio di fumo.
E vediamo nel concreto di che si parla quando si dice "fattore puramente tecnico". I dati cambiano a seconda dell’età e di come sono stati versati i contributi, se con il sistema contributivo o con quello retributivo in vigore fino al 1995, ma una cosa è certa: nessuno può dire oggi quanto prenderà di pensione domani, perché i coefficienti di rendimento sono sempre modificabili in base all’aspettativa di vita, e il loro calcolo potrà presentare anche elementi arbitrari. Ma anche calcolando la perdita con i dati oggi disponibili, le stime vanno dal 3 a quasi il 10% in meno, e la situazione non migliora se si ritarda l’età della pensione. In definitiva, anche con 35 anni di contributi la perdita netta può oscillare – per ora, ma la misura potrà allargarsi progressivamente – da 79-80 a quasi 200 euro in meno al mese.
Non restano che un paio di alternative. Una consiste nel dimenticarsi che un tempo esisteva la possibilità di vivere senza dover lavorare fino a settant’anni. L’altra nel ricordarsi che, oltre ai tavoli di trattativa, è fondamentale recuperare la consapevolezza della nostra forza per imporre davvero le condizioni per una vita dignitosa; una strada che passa solo dalla capacità costante di organizzarsi per lottare con forza e determinazione.