L’art. 18 svanisce nel silenzio

Votato al Senato il 3 marzo scorso il Ddl "collegato lavoro", che contiene le norme su arbitrato e controversie sul lavoro. Il disegno di legge, che ha alle spalle ben due anni di iter parlamentare, è passato liscio e senza troppo chiasso. Proprio mentre la Cgil celebra il congresso delle beghe interne e delle lotte di apparato, sembra essersi dimenticata da tempo che la difesa dell’art. 18 dello Statuto dei lavoratori non finiva nel 2002 al Circo Massimo.

Il quotidiano di Confindustria, il Sole 24 Ore, titolava il 4 marzo scorso "Riforma-soft per welfare e lavoro", tanto per non dare troppo nell’occhio. Confindustria del resto ha evitato di brindare pubblicamente e non ha diramato alcuna nota ufficiale, ma chissà in quanti si sono fregati le mani per questo nuovo pesantissimo smantellamento delle tutele per i lavoratori.

I tre milioni in piazza al Circo Massimo sembrano quasi un’irridente caricatura, oggi che le condizioni dei lavoratori sono passate dal tritacarne della Legge 30 e dalla diffusione massiccia del precariato, per scoprire che al peggio non c’è limite se non si riesce ad arginare la marea montante dell’offensiva di classe. In questo caso, con l’approvazione del disegno di legge 1067-b, si può aggirare di fatto l’art. 18 dello Statuto dei lavoratori, che prevedeva il licenziamento solo per giusta causa.

Può sembrare scandaloso che questo avvenga proprio ora, in un momento di crisi drammatica, tra cassa integrazione e licenziamenti per le fabbriche che chiudono, ma evidentemente è proprio nei momenti di estrema debolezza che si ritiene più facile assestare i colpi più energici. Il risultato, che otto anni fa sembrava così difficile da raggiungere per la borghesia, oggi è a portata di mano con mezzi assolutamente leciti, e molto semplici. Formalmente l’art. 18 non viene toccato; nella sostanza con le nuove norme si prevede che "le parti" - cioè impresa e lavoratore – al momento della sottoscrizione di un contratto di lavoro, possono rinviare le controversie, licenziamento compreso, a un arbitrato privato anziché a un giudice del lavoro. L’arbitro deciderà non secondo le norme inderogabili di legge o i contratti di lavoro, ma "secondo equità", quindi in base a quanto i soggetti avranno privatamente pattuito: novità assoluta per l’ordinamento giuridico italiano, non si considera più il lavoratore il soggetto più debole da tutelare, ma semplicemente una delle parti. Come se lavoratore e impresa stessero su uno stesso piano e si confrontassero con uguali forze, e un lavoratore fosse libero si scegliere, al momento dell’assunzione, se firmare o no un contratto capestro. Inoltre, qualora invece il lavoratore abbia rifiutato di firmare questo compromesso, e voglia ricorrere al giudice del lavoro, troverà un giudice che potrà fare ben poco. Infatti è previsto che il giudice, a fronte di una controversia di lavoro, può pronunciarsi solo sull’aspetto formale del contratto, cioè valutare se è stato stipulato o no in forma legittima. La nuova legge vieta di esprimersi nel merito delle valutazioni tecniche, organizzative, produttive. E’ un annichilimento delle forme di contratto collettivo, una riedizione dei patti individuali e un regresso alla situazione precedente agli anni ’70, con il sostanziale smantellamento del diritto del lavoro.

Così Giuliano Cazzola, deputato Pdl e relatore del provvedimento alla Camera, può permettersi anche di schernire e mettere in ridicolo quello che per molti lavoratori è una questione essenziale di pura sopravvivenza: "Dobbiamo smetterla di considerare i lavoratori come degli incorreggibili e irresponsabili minus habentes, confusi e spauriti, sempre pronti a rinunciare alla difesa dei propri diritti per un piatto di lenticchie". (Il Riformista, 4.3.10)

Per gente come Cazzola, ridurre i lavoratori alla mera individuale accettazione della propria condizione è il sogno di una vita. Se poi davvero si accontentassero di un piatto di lenticchie, non ci sarebbe nient’altro da chiedere. Con questa legge si fa un ulteriore passo in questa direzione, contando sulla mancanza di reazione della classe operaia: sarebbe importante capire che debolezza e scarsa capacità di reazione si accompagnano inevitabilmente ad attacchi particolarmente aggressivi; che non reagendo non si rimane fermi, ma si arretra a velocità vertiginosa.

E’ legittimo chiedersi se veramente i lavoratori riescono a percepire in questo momento il reale livello dello scontro di cui sono protagonisti, più o meno inconsapevoli. Altrettanto legittimo è il dubbio su quale fosse la reale consistenza delle ragioni che nel 2002 portarono la Cgil a puntare tutto sulla strenua difesa dell’art. 18. Allora sembrò subito chiaro che quella difesa aveva un senso se e in quanto, oltre a costituire una linea da cui non indietreggiare, sarebbe servita per rilanciare nuovi obiettivi e l’organizzazione conseguente di nuove lotte. Si trattava di ripartire da quella difesa, per non fermarsi a un semplice baluardo. I mesi e gli anni successivi hanno tracciato un quadro diverso, e l’impressione ormai abbastanza chiara è che a suo tempo si sia trattato in larga misura di un’operazione di propaganda, priva di qualsiasi base strategica.

Oggi, a distanza di otto anni, in una fase di estrema debolezza della classe operaia e delle sue organizzazioni a tutti i livelli, la difesa dei lavoratori nelle controversie legate al lavoro entra solo di riflesso nella piattaforma rivendicativa dello sciopero generale di 4 ore del 12 marzo, e ci entra soltanto per una coincidenza temporale tra l’approvazione del disegno di legge 1067-b e lo sciopero già proclamato. Non un gesto durante un iter parlamentare lungo due anni, men che meno un qualsiasi accenno a iniziative di lotta. Nelle parole di Guglielmo Epifani, segretario Cgil fino alla conclusione del congresso in corso, solo una blanda indignazione dovuta per le circostanze: "E’ il ministro Sacconi che non vuole rendersi conto che la sua scelta renderà più deboli i lavoratori. Tanto più in una fase di crisi come l’attuale. La legge non solo è sbagliata, ma è anche fuori tempo. [ …] . Stiamo valutando il ricorso alla Corte Costituzionale. L’impressione è che ci sia più d’una norma in contrasto con la Costituzione." A parte che il ministro Sacconi di sicuro si rende conto benissimo di quello che fa, e lo fa proprio perché è cosciente degli effetti, ma dai tre milioni di lavoratori in piazza al ricorso alla Corte Costituzionale, la Cgil sembra aver ridimensionato strumenti e obiettivi.