Un conto pagato due volte

La crisi ha attraversato varie fasi ma non è ancora finita. L’intervento dei governi , nel corso dell’anno passato,è riuscito a porre fine alla crisi di sfiducia tra banche, amplificata dal fallimento della banca d’affari americana Lehman Brothers nel settembre del 2008. Ora le banche stanno bene e ancora di più i banchieri. Un torrente di denaro pubblico, stimato in più di 3000 miliardi di dollari, ne ha dissipato il panico. Per sostenerli e rimetterli in carreggiata, ovvero per consentire loro di riprendere il gioco della speculazione in grande stile che è all’origine della crisi, gli stati hanno dovuto trovare nuove risorse e inventarsi nuovi capitoli di spesa nei bilanci pubblici. In sostanza si sono indebitati più di prima.

Oggi è questo il nuovo spettro: l’esplodere del debito pubblico, l’insolvenza degli stati, la loro bancarotta. Il primo paese europeo ad essere in odore di fallimento è stato la Grecia, ma nella lista dei paesi a rischio ci sono da tempo Portogallo, Spagna, Irlanda e la stessa Italia. Certo che attorno al debito pubblico ed ai titoli di stato c’è una folla di speculatori che gioca con le paure e semina bugie con mezze verità. Però l’aumento astronomico della spesa pubblica in tutti i paesi è un fatto. Secondo l’agenzia di rating Moody’s il debito mondiale degli stati ha raggiunto 49.500 miliardi di dollari, ovvero più di tre volte il Pil americano.

Questo fatto viene ora sempre più insistentemente usato come argomento per colpire ancora di più le condizioni di vita dei lavoratori e di tutti i ceti popolari. Non si contano più le ricette e le raccomandazioni dei vari organismi, dal Fondo Monetario Internazionale all’OCSE, alla Banca Europea alle più nostrane Confindustria e Banca d’Italia. Tutti dicono la stessa cosa: il debito pubblico sta diventando una bomba a orologeria oltre che un fardello insopportabile in questo momento di crisi economica; bisogna tagliare.

E che cosa bisogna tagliare? C’è bisogno di dirlo? Pensioni, assistenza sanitaria, spesa sociale.

Così la massa della popolazione dovrebbe pagare due volte (diciamo due per semplicità) il sostegno ai banchieri e a tutto il sistema finanziario. La prima volta attraverso il fiume di denaro pubblico che, finendo nelle casse delle banche, è stato, in tutto o in parte, sottratto alle scuole, agli ospedali, agli asili nido, all’assistenza agli anziani e ai malati, ai programmi di riqualificazione professionale. La seconda volta per coprire la voragine di bilancio che in questo modo si è aperta.

In poche parole: ci hanno rapinato e ora hanno la sfrontatezza di presentarci il conto della loro rapina.

E tutto questo avviene mentre gli effetti sociali della crisi si fanno ancora più drammatici. Per l’Italia l’Istat parla di più di due milioni di disoccupati e la condizione di disoccupato si estende ormai anche a molti piccoli industriali, artigiani e commercianti, anche in quel Nord-Est di cui molti economisti e molti politici avevano fatto il simbolo orgoglioso del "turbocapitalismo" padano.

La crisi è mondiale e colpisce un’economia internazionalizzata come mai prima nella storia umana. Il capitalismo, se anche riuscirà ad uscirne, lo farà a costo di gravi ulteriori sacrifici da imporre ai popoli dei quattro angoli del Pianeta. I governi, di destra e di sinistra, in quanto difensori e sostenitori, in un modo o nell’altro, del fallimentare sistema capitalistico, hanno fino ad oggi assecondato gli interessi del gran capitale. La loro autonomia si limita alla elaborazione dei mezzi con i quali spianare la strada ai grandi gruppi commerciali, industriali e finanziari. Ma certamente non possono andare contro-corrente.

Eppure gli interventi più necessari ed urgenti, dettati in ogni paese dalla gravità della crisi, hanno bisogno della forza e del coraggio di andare contro-corrente, per quanto siano chiari e comprensibili ad ogni persona di buon senso: dalla garanzia di un salario minimo vitale a tutte le categorie di lavoratori, all’istituzione di una indennità di disoccupazione in grado di sostenere realmente le spese necessarie alla sopravvivenza, dal rafforzamento degli interventi socio-sanitari al potenziamento del sistema di istruzione, dal blocco dei licenziamenti alla spartizione del monte ore lavorativo fra tutti i lavoratori di una stessa fabbrica o di uno stesso gruppo industriale a parità di retribuzione. Sono provvedimenti che richiedono una volontà politica che non si paralizzi di fronte ai tabù imposti all’economia e alla società dal privilegio delle classi possidenti. Sono provvedimenti che si traducono in altrettante rivendicazioni. Cioè nei primi punti di un programma politico indipendente della classe lavoratrice. Oggi possono e devono segnare la crescita politica di una nuova generazione di militanti operai, domani segneranno la strada del loro partito, finalmente rinato.