Nelle elezioni regionali di fine marzo, che hanno portato al Centodestra il governo di 7 regioni su 13, le astensioni si sono imposte, per il loro numero e per il loro incremento rispetto a tutte le più recenti tornate elettorali, come il risultato unanimemente condiviso da tutti i partiti e da tutti i commentatori . Per il resto, come da copione, ognuno ha cercato di dimostrare di aver vinto o almeno di non aver perso.
Alcune osservazioni importanti sull’astensionismo di massa sono state svolte a caldo dall’Istituto Cattaneo. Per la prima volta nella storia repubblicana, si legge in un comunicato dell’Istituto, "la partecipazione elettorale in una consultazione di rilievo nazionale è scesa nettamente sotto il 70%, toccando il 63,5%". Sono 8 punti in meno rispetto alle regionali del 2005 e 6,1 punti in meno rispetto alle elezioni europee dello scorso anno prendendo in esame le tredici regioni interessate alle elezioni del 28-29 marzo. La seconda osservazione riguarda il diverso grado di disaffezione che sembra manifestarsi tra le europee e le regionali in contrasto con quanto intuitivamente si potrebbe pensare. "Nelle ultime due tornate elettorali regionali – continua il comunicato – il non-voto è stato più marcato alle regionali che non alle europee". Cioè quelle elezioni che comunemente si pensano "più vicine alla vita della gente", vengono di fatto ignorate da un maggior numero di elettori rispetto a consultazioni che per anni sono state considerate meno importanti.
In sostanza, una Caporetto nella Caporetto. Cioè un aumento della sfiducia nei partiti e nei mestieranti della politica che si fa più netto quando si tratta di eleggere organismi le cui decisioni hanno a che fare direttamente con la vita di tutti i giorni.
Un’ultima considerazione riguarda il forte incremento di astensioni in regioni solitamente meno interessate a questo fenomeno: la Toscana, l’Emilia, le Marche.
Lasciamo che i sociologi si scervellino a fabbricare dei perché. Questa ondata di sfiducia popolare è un fatto. Un fatto che riflette l’impatto della crisi in ampi strati delle popolazione e la convinzione di non poter ricevere dalla "politica" nessuna risposta alle proprie urgenze. Un fatto che riflette l’indignazione verso una casta di politici i cui privilegi risultano ancora più odiosi in tempi di licenziamenti, di aziende che chiudono, di condizioni di vita precarie per milioni di persone.
Il significato del voto
Se prendiamo l’espressione del voto come una fotografia degli stati d’animo e degli umori presenti nelle varie classi e negli strati sociali della popolazione, bisogna contare il numero assoluto dei voti più che le percentuali. È un ragionamento che fa, a suo modo, anche una testata apertamente filo-governativa come "Il Giornale" che titola così un articolo di analisi dei flussi elettorali: "Ma neanche il Carroccio guadagna voti". Il partito di Bossi, infatti è stato votato da duecentomila elettori in meno rispetto alle europee. Un’emorragia minore rispetto a tutti gli altri ma sempre un’emorragia. L’IdV di Di Pietro, che pure è data come vincitrice, dopo la Lega, in queste regionali, ne ha persi 477.000. i grandi partiti hanno le perdite maggiori: il PD un milione e duecentomila, il PdL addirittura 3.222.000. Lo stesso articolo riporta questo giudizio del politologo Roberto D’Alimonte: "Ha vinto queste elezioni non chi ha conquistato nuovi elettori, ma chi è riuscito a tenersi i propri o a perderne meno degli altri". La vittoria "folgorante" della coalizione Bossi-Berlusconi è tutta qui.
L’aumento relativo dei consensi della Lega, anche in rapporto al partito di Berlusconi, ha comunque un significato politico. Qualcuno ha scritto che il Carroccio si è ormai avviato ad essere un partito "normale". Si tratterebbe in sostanza di una reincarnazione "nordista" della vecchia DC. Ha "tenuto" più degli altri partiti per merito del suo insediamento organizzativo capillare tradizionale, mentre gli altri partiti, a cominciare dal suo alleato, sono reti informi , aggregati di notabili e di interessi, come ha scritto Ilvo Diamanti su Repubblica. Non c’è dubbio che la presenza strutturata nei territori sia una delle carte vincenti della Lega così come è vero che il suo "saper parlare alla gente" che tutti sottolineano con ammirazione servile o con malcelata invidia è fatto in gran parte di un cinico utilizzo e di una consapevole amplificazione delle paure e dei pregiudizi della piccola borghesia del Nord e del Nord-Est in particolare, paure e pregiudizi in cui è stata trascinata anche parte della classe operaia.
Nuove illusioni "nordiste"
Il "partito normale" ha messo in soffitta la secessione? Forse. E comunque non la mette all’ordine del giorno nel breve periodo. Molto più proficuo servirsi delle salde posizioni ministeriali conquistate nella "Roma ladrona" per cercare di ottenere il massimo di "federalismo fiscale" che la nuova condizione di forza permetterà di imporre a Berlusconi. Nonostante tutte le sparate nordiste, i dirigenti leghisti sanno benissimo che si è tanto più forti nelle terre padane quanto più si è ascoltati a Roma. Ma il "bottino" del potere regionale presenta anche altri vantaggi. I maggiori quotidiani economici si sono affrettati a sottolinearlo. Scrive Manuel Follis su Milano Finanza che l’implicazione più evidente della conquista del potere regionale in Piemonte e Veneto è quella riguardante le banche, "chiaramente uno degli obiettivi della Lega". Si tratta del controllo delle Fondazioni, espressione dei poteri politici locali, che nel Nord hanno partecipazioni importanti nelle maggiori banche nazionali da Intesa San Paolo a Unicredit.
In un’area geografica che produce la gran parte della ricchezza nazionale e in cui la crisi ha falcidiato un gran numero delle imprese solitamente indicate come il simbolo del nuovo "miracolo italiano", spingendo talvolta perfino al suicidio alcuni piccoli industriali, la possibilità di disporre del denaro dei risparmiatori e di quello del gettito fiscale locale, viene presentata dagli uomini di Bossi come la soluzione di tutti i problemi economici del "popolo del Nord". In realtà si tratta ancora di un’illusione. Sarà ben difficile che, di qualunque colore sia chi siede nel suo consiglio di amministrazione, una grande banca allenti i cordoni della borsa in favore di fabbrichette, laboratori artigiani e botteghe dall’incerto destino. I richiami alla sacralità del suolo padano potranno servire per le folkloristiche scampagnate alle sorgenti del Po ma non commuoveranno per niente i vertici del mondo bancario. Il capitalismo resta il regno dei grandi squali e ai partiti può essere dato, al massimo, il compito di rendere mansueti gli squali più piccoli, non certo quello di assicurare loro i bocconi più grossi. Lo stesso ragionamento vale per l’utilizzo dei proventi della futura fiscalità "federale", una massa di denaro che dovrà andare prevalentemente nelle tasche dei grandi committenti, costruttori, società di trasporto, di servizi, ecc. mentre alla massa dei piccoli imprenditori andrà forse qualche briciola.
I nuovi "governatori" leghisti non potranno dunque fare il miracolo di rimettere in piedi l’economia del Piemonte e del Veneto, duramente colpite dalla crisi mondiale. Però potranno accanirsi con maggiore durezza contro i lavoratori immigrati e tutte le minoranze nazionali e religiose. È un gioco in cui sono maestri. Se la fabbrica chiude, se ci sono licenziamenti o cassa integrazione, se "non c’è da mangiare nemmeno per noi", che cosa c’è di meglio e di più "opportuno" che prendersela con gli stranieri?
È vero che i padroni hanno ancora bisogno di questa manodopera, ma rendere a questi lavoratori la vita ancora più difficile può essere d’aiuto per far subire loro condizioni ancora peggiori.
Una risposta che non può venire dalle urne
La coalizione di governo appare rafforzata perché meno colpita dall’astensione ma, in realtà, perde consensi nella popolazione. L’inettitudine del PD, oltre ad aver favorito la crescita del partito di Di Pietro e, a sorpresa, quella di una lista come quella di Beppe Grillo, rende più lento il maturare dei contrasti tra Lega e PdL, contrasti che la sconfitta di Brunetta e di Castelli nella corsa per la poltrona di sindaco rispettivamente a Venezia e a Lecco sembrano confermare. Bersani ha tentato di contrastare quanti hanno letto il responso elettorale come un crollo del PD. Ma il vero problema del PD è il fatto che il gruppo dirigente è ormai diviso in fazioni i cui rispettivi leader si comportano come franchi tiratori nei confronti del segretario di turno. L’amplificazione del "crollo", vero o presunto, a cui il segretario ha contrapposto una sfilza di numeri e di percentuali, è partita anche dai Veltroni, Franceschini e Marino.
Il PD sembra aver ereditato tutte le debolezze dell’ultimo PCI. In modo particolare la permeabilità dei suoi dirigenti alle critiche e alle valutazioni, anche le più superficiali, che nascono fuori dal partito. Ne risulta una incapacità a programmare una linea d’azione su tempi lunghi e un continuo oscillare all’inseguimento degli atteggiamenti culturali più di moda nella piccola borghesia intellettuale. Il PCI, più o meno dalla fine degli anni ’70 in poi, aveva progressivamente dissipato gran parte di quel patrimonio organizzativo che ne era stato un punto di forza. In altre parole, aveva iniziato a liquidare la rete dei militanti che consentivano al partito una presenza capillare nei quartieri di gran parte delle città e delle cittadine italiane soprattutto del Centro e, in parte, del Nord. Un processo che rifletteva anche un mutamento della composizione sociale degli iscritti e, soprattutto, dei suoi dirigenti intermedi. Diminuivano gli operai e aumentavano i professori. Veniva progressivamente emarginato il lavoro "oscuro" dei militanti, dei diffusori dell’Unità porta a porta, di quelli che tenevano in piedi, anche materialmente, le sezioni, in favore di un modernismo infarcito di miti sui nuovi mass-media. Il "nuovo modo di far politica", di cui Veltroni fu uno dei massimi profeti, assestò dei colpi decisivi al corpo del vecchio partito stalinista prima ancora della caduta del muro di Berlino.
Oggi il PD prosegue ed esaspera queste debolezze ed a queste aggiunge l’inconsistenza sul piano ideale. È un partito privo di identità, a cominciare dal nome, che richiama una improbabile parentela con l’omonimo partito di Clinton e Obama.
I lavoratori sono privi, anche sul piano elettorale, di un partito che li rappresenti o dica di rappresentarli. Dal dizionario dei partiti "che contano" è stato rimosso ogni riferimento specifico agli interessi della classe lavoratrice, ogni accenno alla tradizione socialista del movimento operaio. La crisi, inoltre, aumenta nella classe operaia la sensazione di appartenere ad un mondo estraneo alla politica. "Se la politica se ne frega di me, io me ne frego della politica", così ragiona un numero crescente di lavoratori.
Certo, la risposta ai problemi più urgenti dei lavoratori e delle loro famiglie non potrà venire dall’esito di una consultazione elettorale. Il mondo del lavoro deve mettersi in grado di stabilire rapporti di forza favorevoli in opposizione al padronato. Un processo che passa necessariamente attraverso una riconquista di posizioni favorevoli nei luoghi di produzione.
Ricostruire le forze della classe lavoratrice, rispondere agli attacchi padronali, battersi contro i licenziamenti, nella consapevolezza che per la grande borghesia la crisi non è mai venuta e che vi sono nella società sufficienti riserve di ricchezza per consentire, per fare un esempio, almeno un reddito decente a chi ha perso il lavoro. Tutto questo costituisce già di per sé un indirizzo "politico". Dunque i lavoratori hanno bisogno della politica, ma di una loro autonoma politica, basata principalmente sull’organizzazione dei lavoratori più combattivi. Lo schifo per i politicanti dei due schieramenti principali non deve tradursi nel rifiuto dell’arma della lotta politica ma nello sforzo per forgiarsene una propria.