Presidi sotto le Prefetture in molte città italiane il 28 aprile scorso, in occasione del ritorno nelle aule parlamentari del cosiddetto DDL collegato lavoro, cioè la controriforma del processo del lavoro con il ricorso all’ormai noto istituto dell’arbitrato. Ma il DDL, un’esagerazione anche per il Capo dello Stato che non lo aveva firmato, non ha subito stravolgimenti risolutivi. Considerando il livello dello scontro, era difficile immaginare il contrario.
Sarebbe bello poter dire che la mobilitazione operaia ha ricacciato indietro l’ennesimo tentativo di abbattere diritti e condizioni di lavoro, e che il Governo ha dovuto fare una marcia indietro definitiva sul ricorso all’arbitrato, micidiale strumento per mettere sotto controllo delle imprese ogni controversia nelle cause di lavoro.
E’ bene prendere atto che non è così. Non ci sono spettacolari marce indietro, solo qualche correzione e un po’ di aggiustamenti, compreso un emendamento Pd passato per un voto, con un colorito e folcloristico finale a spintoni tra parlamentari del Pdl che si accusavano di defezione in occasione del voto. Quello che per i lavoratori significa un prezzo da pagare caro in termini concreti, per le comparse parlamentari è solo un giochetto per beghe di partito.
Il decreto legge, approvato lo scorso 3 marzo dal Senato, era stato rinviato alle Camere dal Presidente della Repubblica Giorgio Napoletano, che vi aveva rilevato scarsa chiarezza, stante il fatto che raggruppa una serie eterogenea di materie, e non aveva potuto esimersi dal rilevare dubbi di costituzionalità – dato che il provvedimento sottrae di fatto la possibilità di ricorrere in giudizio ad alcune categorie di persone, i lavoratori in contenzioso, appunto. Lo stesso Presidente aveva dovuto constatare che la condizione delle imprese e quella del lavoratore erano state messe sullo stesso piano, come se si trattasse semplicemente di un rapporto tra eguali – liberi venditori di forza lavoro, e liberi acquirenti. Una mistificazione troppo pesante, magari prematura, anche per l’attuale situazione politica, e nonostante la permanente fase di debolezza della classe operaia.
Le modifiche effettive apportate al provvedimento comunque non sono sconvolgenti. Una prevede che la clausola compromissoria, con la quale in pratica il lavoratore accetta di ricorrere a un arbitro privato anziché al giudice del lavoro, non possa riguardare le controversie relative al licenziamento; ovviamente però possono essere messi a rischio tutti i rimanenti diritti e tutele del lavoratore, anche quelli legati a norme precedentemente inderogabili. Inoltre si stabilisce che la clausola compromissoria si possa concludere solo dopo il periodo di prova, o comunque 30 giorni dopo la stipula del contratto di lavoro, e che il lavoratore possa essere assistito nell’occasione da un legale di fiducia o da un rappresentante sindacale; questa poi è giusto la foglia di fico che tappa le vergogne, con il lavoratore che - prodigi della legislazione - dopo 30 giorni non è più sotto ricatto. La norma che prevedeva la facoltà del Ministro del Lavoro di decidere in autonomia, se dopo un anno le parti sociali non si fossero messe d’accordo sulle regole dell’arbitrato, non è stata affatto eliminata, sono stati solo aggiunti sei mesi. Infine, c’è il famoso emendamento Pd, che prevede il ricorso all’arbitrato per le controversie già insorte, e non per quelle "che dovessero insorgere".
Il colpo di mano del Governo sull’arbitrato si è basato sulla tesi propagandistica che è necessario snellire le procedure perché le cause di lavoro durano troppo e costano troppo; costa troppo, quindi, garantire le tutele dei lavoratori. Tempo perso, quello dei giudici per emettere sentenze in materia di lavoro. Meglio pagare qualche buon professionista, che farà l’arbitro, con tutta probabilità, in nome e per conto dei padroni. L’intento generale della norma resta questo, e non è cambiato solo perché molti giuristi di buona volontà si sono espressi contro. Il Ddl era entrato all’ultimo momento nella piattaforma rivendicativa dello sciopero generale di 4 ore del 12 marzo, indetto dalla sola Cgil, nonostante l’iter parlamentare del decreto legge fosse vecchio di due anni; in definitiva la Cgil si era resa conto delle conseguenze non banali del provvedimento, che peraltro aveva già registrato il consenso di Cisl e Uil. I due sindacati con i quali la Cgil, a conclusione del suo congresso, medita di riallacciare profittevoli rapporti di collaborazione, si erano dimostrati perfino più realisti del re, come si suol dire, affrettandosi a firmare un avviso comune con Confindustria per applicare la legge. Nulla di scandaloso per loro era contenuto nella normativa sull’arbitrato, perfino prima del rinvio alle Camere; figuriamoci dopo. Sconfessati anche dal Presidente della Repubblica, non hanno fatto una piega.
Dopo il rinvio alle Camere, così si era espressa in un’intervista al quotidiano "Liberazione" Susanna Camusso, probabile prossima segretaria Cgil alla scadenza del mandato di Guglielmo Epifani, di recente riconfermato alla guida del sindacato dopo il Congresso: "La nostra critica non è mai stata limitata a ciò che riguarda l’articolo 18, ma al rischio che quella legge faceva correre a tutta la contrattazione come strumento. Il rovesciamento di ‘parte debole/parte forte’ mette il lavoratore davanti a una forte ricattabilità su tutte le condizioni di lavoro. Paradossalmente, dal punto di vista tecnico è più pericoloso questo dell’attacco all’articolo 18: E’ una cosa quanto più simile alle dimissioni in bianco per legge mai vista."
Tutto vero, ma non basteranno i presidi sotto le Prefetture per sbarrare il passo a questo attacco.